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di Giuseppe Pignatone


La Stampa, 12 aprile 2021

 

La Camera ha recepito la direttiva Ue: più tutele agli imputati, ma senza limitare la cronaca. Il 30 marzo la Camera ha approvato il recepimento della direttiva europea 234/16 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza.

Un passo che era stato ritenuto superfluo solo tre anni fa dal governo Gentiloni, allorché si ritenne che nel nostro Paese tali indicazioni fossero già garantite dalle leggi vigenti, in primo luogo dall'articolo 27 della Costituzione che prevede la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva.

Al centro del recente dibattito c'è stata, in particolare, quella parte della direttiva che recita: "Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o di un imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole".

Per formulare un giudizio completo sulla nuova normativa sarà necessario attendere le ulteriori misure che (e se) saranno adottate, ma il recepimento è comunque un fatto positivo perché sottolinea l'esigenza di tutelare l'immagine del cittadino indagato o imputato, ponendo in particolare l'accento su quali informazioni vadano rilasciate e in quale modo, dall'autorità pubblica. Cioè, nel nostro sistema, in primo luogo dalle Procure e dalla polizia giudiziaria. Su alcuni punti, però, è necessario evitare equivoci.

Se, per restare al caso più frequente e significativo, la notizia è costituita dall'esecuzione di una misura cautelare disposta dal Gip, oggetto dell'informazione non possono che essere i fatti addebitati e gli elementi a sostegno delle decisioni del giudice. In questo frangente, sarebbe un controsenso presentare la persona indagata come certamente innocente.

Cosa diversa e doverosa è, invece, porre in rilievo che si tratta solo di una fase - importante, ma non definitiva - di una procedura complessa, solo al termine della quale la colpevolezza sarà accertata da una sentenza irrevocabile. Ma questa precisazione non è nella disponibilità del Pm o della polizia giudiziaria, perché dipende solo dalla libera scelta del giornalista.

Nella mia lunga esperienza, ho potuto constatare che solo in rari casi gli organi di informazione hanno dato atto della presunzione di non colpevolezza dell'indagato nonché del carattere non definitivo del provvedimento, che io stesso o altri colleghi avevamo sempre avuto cura di sottolineare in sede di conferenza stampa o di incontri informali con i giornalisti.

Considerazioni analoghe valgono per le modalità della comunicazione che deve aver luogo - come più volte precisato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, anche in una sentenza del 1995, peraltro non riferita a vicende italiane - "con tutta la discrezione e il riserbo imposti dalla presunzione di innocenza". Anche qui si sta parlando di scelte (collocazione ed evidenza di una notizia, titolazione, spazio accordato alle parti), del tutto libere e sotto la esclusiva responsabilità di direttori, giornalisti, editori. Di nessun altro.

Certo, su ognuno di questi aspetti possono incidere interventi impropri, abusi e irregolarità di comportamento di singoli magistrati: queste vere e proprie patologie vanno perseguite applicando le norme disciplinari esistenti (Dlgs 109/06), senza dimenticare che anche il ministro della Giustizia ha poteri d'iniziativa in questo campo. Le dichiarazioni di alcuni esponenti politici e le tesi di alcuni organi di stampa, sembrano attribuire al recepimento della direttiva europea anche un altro significato: le autorità pubbliche non dovrebbero diffondere informazioni sulle indagini o sui processi. Non è così, come risulta chiaramente dal testo stesso della norma.

Anzi, quelle autorità possono e - sotto certi aspetti devono - fornire tali notizie, ovviamente nel rigoroso rispetto di quanto consentito dalla legge e cioè quando è venuto meno il segreto investigativo. Infatti, come ha osservato anche Giorgio Spangher, studioso certo molto attento alle garanzie dell'indagato, il principio di non colpevolezza richiamato dalla direttiva deve trovare un punto di equilibrio con altri principi costituzionali di non minore rilievo, tra cui il diritto di cronaca, espressione della libertà di manifestazione del pensiero sancita dall'articolo 21 della Costituzione.

In un ordinamento democratico non è pensabile, ad esempio, che i cittadini non vengano informati sul motivo che ha portato all'arresto del sindaco della loro città, o di quanto emerge da indagini in materia di mafia o terrorismo. Anzi, a mio avviso le autorità hanno il dovere di spiegare il loro operato per sottoporlo al giudizio della pubblica opinione e dei media. Tale controllo è un aspetto irrinunciabile del principio di responsabilità, valido per chiunque eserciti un potere ed è un incentivo fortissimo al buon esercizio della giurisdizione.

Ma vi è di più. Come afferma Glauco Giostra, che ha molto approfondito queste tematiche, "l'accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica: per un ordinamento democratico moderno è inconcepibile una giustizia segreta", che rischierebbe di diventare "torbido strumento di affermazione di parte", determinando una "gravissima involuzione civile e democratica".

Questo è tanto più vero in una società conflittuale come la nostra, in cui indagini e processi sono utilizzati strumentalmente in ogni campo - economico, finanziario, sociale - e troppo spesso, per ragioni risalenti alla storia stessa del nostro Paese, come arma di lotta politica.

Accanto alle responsabilità di alcuni magistrati - che, ribadisco, vanno perseguite - emerge qui con forza il problema di un giornalismo più incline ad anticipare future (e solo eventuali) condanne, specie se in danno di un avversario politico, piuttosto che, come nota un grande giurista, Mario Chiavario, "a vigilare senza guardare in faccia nessuno, contro inerzie, insabbiamenti e depistaggi.

Come è invece suo preciso diritto e dovere". In buona sostanza, per usare le recenti parole della giornalista Gaia Tortora (figlia di Enzo, la cui tragica vicenda giudiziaria è nella memoria del Paese) "il problema è profondamente culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti, opinione pubblica".