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di Alfredo Sorge


Il Riformista, 12 aprile 2021

 

I dati sugli errori giudiziari impongono una riflessione sul tema che è tra i più delicati non soltanto del processo penale ma dello stesso patto sociale democratico, essendo questo il momento in cui lo Stato è chiamato a riparare i danni a quei cittadini che hanno subito un periodo di tempo in regime di arresti e sono poi stati pienamente assolti in modo definitivo.

Com'è noto, la legge non permette di ottenere un vero risarcimento ma limita a chiedere e ottenere una somma a titolo di riparazione parametrata su dati quali forma e durata della detenzione, danno d'immagine e perdita di chance che quella detenzione preventiva ebbe a causare. Dunque, si tratta di somme in qualche modo già parametrate e contenute in un limite massimo liquidabile pari a 516mila euro. In base al dato normativo, la liquidazione viene limitata ai casi in cui l'avente diritto non abbia dato causa alla sua detenzione per dolo o colpa grave e che alcuni orientamenti giurisprudenziali non hanno mancato di dilatare quanto più è possibile il concetto di colpa grave, fino a ricomprendere casi invero assai discutibili, come quello dell'essersi avvalso della facoltà di non rispondere, censurando cioè il malcapitato tratto in arresto di non aver egli chiarito dal principio la infondatezza della ipotesi accusatoria cautelare (!): un cortocircuito logico palese a tutti. Eppure i casi sono davvero tanti e cospicuo l'importo delle somme erogate a titolo di riparazione cospicuo. E il distretto di Napoli, purtroppo, svetta nelle statistiche.

La riflessione principale che occorre svolgere, che è poi anche la causa del triste fenomeno, è quella relativa all'eccessivo ricorso alla custodia cautelare carceraria e domiciliare. Ciò in quanto non è certo l'esito assolutorio del processo che deve destar sorpresa, ché anzi l'assoluzione dell'imputato è una delle fisiologiche conclusioni di un giudizio laddove, davanti ad un giudice terzo, ha luogo la verifica della ipotesi accusatoria: le statistiche, com'è noto, riferiscono di un numero considerevole di assoluzioni o di proscioglimenti dell'esito dei procedimenti penali. Quel che è patologico è che l'imputato debba attendere da detenuto lo svolgimento e la conclusione del suo processo, purtroppo non breve (anche a causa dell'assurdo allungamento dei termini di prescrizione) o comunque dopo un periodo spesso lungo di custodia cautelare. Patologico perché, nella scelta del nostro Legislatore e soprattutto in base alla Costituzione, l'imputato si presume innocente fino a condanna definitiva e la detenzione va riservata soltanto a casi limite, in presenza di indizi gravi di reato e di concrete e attuali esigenze cautelari, ovvero seri e obiettivi pericoli di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove, condizioni che andrebbero limitate a pochi titoli di reato e a poche fattispecie. Qui dobbiamo ricordare che anche le ultime riforme, a cominciare da quella del 2015, non hanno sortito gli sperati riflessi riduttivi dell'eccesso cautelare nella applicazione giudiziaria.

Il discorso deve allargarsi alla tematica, sempre presente, che non deve vedere nel carcere la soluzione dei problemi della società, tantomeno quando si parla di carcerazione prima di una sentenza definitiva di condanna e soprattutto quando si parla dei troppi casi di carcerazione preventiva prima di una condanna perfino di primo grado. A mio parere il problema è di tipo culturale: il processo penale è oggi troppo sbilanciato a vantaggio della pubblica accusa che, per uomini, mezzi e dotazioni economiche, spesso è in grado di avere la meglio nella fase delle indagini, favorita anche da norme processuali assai criticabili. Ma ciò non accade nella fase del dibattimento laddove, davanti a un giudice terzo nella pienezza dei suoi poteri, si perviene all'esito assolutorio che sancisce l'ingiustizia della detenzione cautelare. L'auspicio, dunque, è quello a una sempre minore detenzione preventiva, da ridurre soltanto a casi e a periodi temporali in cui la stessa appare indispensabile: solo così diminuirà l'entità delle somme che lo Stato dovrà erogare alle vittime di ingiusta detenzione.