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di Luca Martinelli


La Repubblica, 3 marzo 2021

 

La leader indigena, premio Goldman per l'ambiente, fu uccisa cinque anni fa in Honduras. In un libro inchiesta la giornalista inglese Nina Lakhani indaga sui mandanti. Il ricordo di un giornalista che la conosceva bene. Giovedì 4 marzo Berta Cáceres compie cinquant'anni. Tempo presente, perché per tanti la leader indigena hondureña è viva, nonostante sia stata assassinata nella sua casa nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2016, cinque anni fa. "Berta no murió, se multiplicó", Berta non è morta, si è moltiplicata è lo slogan che viene scandito durante le manifestazioni per chiedere giustizia, per "esigere" (il verbo che usano le figlie, Bertita e Laura) di individuare i mandanti del suo omicidio. "Berta fue semilla", dicono anche: Berta come un seme interrato a primavera e destinato a dar nuovamente frutti meravigliosi durante l'estate.

Cinque anni fa, alle 12.17 del 3 marzo 2016, ero seduto alla mia scrivania, di fronte al laptop, nella redazione di Altreconomia. L'icona di Messanger si accese: "Luca, mi spiace molto contattarti con questa orribile notizia... querida Berta... se me parte el corazon, Luca... no tenemos mas info por el momento". Daniela scriveva dalla Spagna, dove lavora per l'Atlante della giustizia ambientale, un progetto dell'Università di Barcellona. Condivideva il link di un articolo di TeleSur, tra i media internazionali il primo a dare la notizia: "La coordinatrice de Consiglio civico dei Popoli Indigeni di Honduras (Copinh), Berta Cáceres, è stata uccisa nella notte di giovedì da soggetti sconosciuti". Gli sconosciuti erano entrati in casa sua, a La Esperanza, nel dipartimento di Intibucá, la cittadina dov'era nata e cresciuta. Violando la sua intimità, l'avevano sorpresa in camera da letto e uccisa con tre colpi di pistola. La notizia avrebbe fatto il giro del mondo: in Italia il giorno dopo finì in prima pagina su Il manifesto e l'Unità, mentre la Repubblica dedicò alla vicenda un lungo articolo di Daniele Mastrogiacomo e l'Amaca di Michele Serra.

Nello scrivermi su messanger, però, Daniela sapeva che quella storia mi avrebbe toccato non solo come giornalista: per me, e per tanti in Italia, Berta era un'amica e non solo la leader indigena lenca, l'attivista per i diritti umani, premio Nobel alternativo per l'ambiente nel 2015. Dopo aver aperto il link telefonai subito a Thomas Viehweider, presidente del Collettivo Italia Centro America, l'associazione cui avevamo dato vita con una decina di anni prima, quando molti di noi erano tornati da esperienze di lavoro e volontariato internazionale nel Sud-est del Messico, in Guatemala, in Nicaragua, in Honduras. Piangemmo insieme, pensando a lei, ai suoi figli, al Copinh e all'Honduras. Senza nemmeno bisogno di esplicitarlo ci dicemmo qualcosa di terribile: "Questo omicidio è un messaggio", perché "si matan ella, pueden llegar a matar quien quieran" ci dicemmo: se hanno ucciso lei, possono arrivare a uccidere chi vogliono. Ammazzando Berta - che l'anno prima aveva vinto il Goldman Environmental Prize ed era riconosciuta in tutto il mondo - vogliono cancellare ogni speranza per un Honduras più equo e meno razzista, per un Paese capace di riconoscere e tutelare i diritti umani e l'ambiente, annichilendo le lotte.

La giornalista inglese Nina Lakhani descrive magistralmente questa condizione in un passaggio del libro Chi ha ucciso Berta Cáceres?, uscito finalmente in Italia a metà febbraio grazie a un prezioso lavoro di Capovolte, piccolo editore di Alessandria. Lo fa ricostruendo quella che è nei fatti la biografia di uno Stato criminale e raccontando un episodio che vede protagoniste Berta e l'amica Miriam Miranda, leader di Ofraneh, l'organizzazione del popolo garifuna, afrodiscendenti che vivono sulla costa caraibica dell'Honduras. Era il 2009 e una settimana prima un colpo di Stato aveva messo fine alla presidenza di Manuel Zelaja, "Mel". L'uomo aveva tentato di tornare nel Paese ma l'aereo presidenziale non era potuto atterrare all'aeroporto di Toncontín, nei pressi di Tegucigalpa, la capitale del Paese. Miriam e Berta erano lì, insieme, e piansero: non erano sostenitrici di Zelaja (nel novembre del 2005, quando venne eletto, ero in Honduras, in visita al Copinh e a Ofraneh, e le due organizzazioni non appoggiavano senz'altro un presidente espressione di una famiglia di latifondisti, grandi proprietari terrieri), ma sapevano che quel momento avrebbe marcato un prima e un dopo nella storia dell'Honduras. E così è stato.

Lakhani, oggi inviata negli Stati Uniti per il quotidiano The Guardian dopo anni in Messico e Centro America ha incontrato Berta solo una volta, nel 2013. Da quell'incontro annota nel libro la sua frase di commiato: "L'esercito ha una lista di persone da uccidere, contenente i nomi di sedici difensori dei diritti umani, e il mio è in cima. Io voglio vivere, ci sono tante cose che voglio ancora fare in questo mondo. Prendo precauzioni, ma in fondo in questo Paese, dove l'impunità è totale, sono vulnerabile. Quando vorranno ammazzarmi, lo faranno"

Quando Berta è morta, per me è stato naturale tornare all'ultima notte che avevamo passato insieme, a Milano, a casa mia. Era la fine di ottobre o l'inizio di novembre del 2014. Pochi giorni prima lei era a Città del Vaticano, invitata a prender parte al primo Incontro mondiale dei movimenti popolari voluto da Papa Francesco. Quando ci incontrammo in stazione era felice di aver potuto avvicinare il Santo Padre. Sul desktop del mio laptop da quella sera c'è un file, "La Palabra del Pueblo Lenca ante el Papa": è la lettera che a nome del Copinh Berta presentò a Francesco. "La criminalizzazione delle lotte sociali, dei lottatori e delle lottatrici è una politica sistematica del governo dell'Honduras, come lo sono anche le persecuzioni giudiziarie in uno stato di completa impunità [...]. Santo Padre, stiamo parlando per conto degli invisibili della storia. Il potere dei mezzi di comunicazione nega e rende invisibile l'esistenza dei popoli indigeni e negri dell'Honduras. Stanno cercando di far sparire per sempre i nostri popoli, giustificando così la mancanza di volontà politica di rispettare i nostri diritti umani e collettivi". Berta firma la lettera con affetto e rispetto.

La mattina dopo la accompagnai a Linate, dove avrebbe preso un aereo per l'Argentina: andava a trovare i figli, Laura e Salvador, che grazie ad alcuni amici solidali aveva mandato in quel Paese adolescenti, dopo il colpo di Stato del 2009. Temeva che non la lasciassero partire: aveva un biglietto di sola andata da Milano a Buenos Aires e in fondo era una donna, una donna indigena, una donna indigena e povera nata in un piccolo Paese del Centro America da cui ogni anno fuggono centinaia di migliaia di persone. Mi faranno entrare in Argentina?, si chiedeva.

Nel suo libro Nina Lakhani cita un'amica d'infanzia di Berta, Ivy, compagna di scuola a La Esperanza: "Berta era popolare, felice e amava la vita, e questo non è mai cambiato negli oltre trent'anni in cui siamo stare amiche, anche quando alla fine le cose diventarono davvero difficili". È così: la ricordo nel 2006, in una delle sue prime visite in Italia, con una delegazione di quattro attivisti hondureñi (due uomini, due donne) che poi accompagnammo a Vienna, all'incontro tra la società civile europea e quella latino-americana. Incarnava l'idea dell'alegre rebeldia, una ribellione giocosa, capace di sorridere e di non prendersi sempre sul serio.

A cinque anni dal 2 marzo 2016, mentre è ancora in corso il processo nei confronti di colui che è stato individuato come il mandante dell'omicidio, sette persone sono state condannate per la morte di Berta e per aver ferito Gustavo Castro, l'amico che era in casa con lei, attivista e ambientalista messicano, arrivato a La Esperanza per partecipare a un seminario sulle energie rinnovabili promosso dal Copinh, unico testimone oculare del delitto.

Sono tutte persone legate a DESA, l'impresa che stava costruendo una centrale idroelettrica in territorio lenca, sul fiume Gualquarque. Le dighe per Berta e "Gus" erano da tempo oggetto di campagne: dalla fine degli anni Novanta avevano iniziato a far pressione sulle istituzioni finanziarie internazionali per denunciare il furto dei beni comuni, lo sfruttamento idroelettrico e quello minerario del Sud del Messico e dell'America Centrale.

Nel 2003 avevano portato decina di migliaia di indigeni da tutto il Centro America a Cancun, per protestare contro il vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Berta morì tra le sua braccia. Ci aveva avvisati, in un certo modo, nel discorso con cui a San Francisco nell'aprile del 2015 aveva ricevuto il Goldman Prize, dedicato "ai martiri che danno la propria vità per difendere le risorse naturali". O forse no, Berta non è morta: si è moltiplicata e la sua voce risplende in tutto il mondo, un invito a scuoterci.