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di Giovanni Negri


Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2021

 

C'è un malato ai piani nobili del nostro ordinamento giuridico. Ed è un malato eccellente, il diritto penale, le cui criticità sono sotto gli occhi di tutti e al quale peraltro tutti (o molti) chiedono troppo. Ed è un passaggio impervio non solo per gli operatori del diritto.

Dove al cronista peraltro toccherebbe qualificare la stagione attuale come fase forse terminale di quel panpenalismo sfociato poi in populismo giudiziario, coni quali si fanno ora i conti in questo scorcio finale di legislatura. E dall'accademia, almeno quella più attenta alle politiche del diritto, arrivano ora analisi non solo qualificate, cosa forse scontata, ma anche puntuali e tempestive.

Se ieri sono state eccellenze come Ennio Amodio con "A furor di popolo" (Donzelli) o Filippo Sgubbi nell'aureo e purtroppo conclusivo pamphlet "Il diritto penale totale" (il Mulino), ora arriva Roberto Rampioni, docente a Tor Vergata, con cento concentratissime pagine a interrogarsi sul diritto penale e sui suoi limiti, "Diritto penale. Scienza dei limiti del potere punitivo" (Giappichelli, pagg. 102, euro 15,00).

Dove già l'oggetto della ricerca assume per certi versi il tono della provocazione, nel qualificare il diritto penale come la scienza dei limiti del potere punitivo. Quando i mali sono invece del tutto evidenti: dalla flessibilizzazione per il predominio dell'idea di scopo su quella di diritto, alla materializzazione, per il sempre più frequente utilizzo di valutazioni di contenuto, alla moralizzazione, da intendere come perdita di laicità dell'ordinamento, per finire con la soggettivizzazione, tendenza a privilegiare gli elementi che esprimono l'atteggiamento interiore di chi agisce, a danno di quelli oggettivi del fatto reato.

A soccorrere allora, nella lettura di Rampioni, è la determinazione di quella linea di confine del "diritto penale frammentario", che passa da quanto offre la teoria del bene giuridico. Una sorta di "ritorno ai fondamentali", nella consapevolezza però che la nozione di bene giuridico non può essere cristallizzata una volta per sempre, piuttosto deve trovare definizione sia dai processi sociali, che fanno emergere il bene, sia da quelli politico criminali, che lo incasellano a bene giuridico.

Quest'ultimo allora è "solo" quell'interesse umano che richiede una tutela di natura penale. Di fatto però oggi è proprio il parametro della meritevolezza della tutela, come criterio per l'individuazione dei beni da proteggere anche sul piano penale, quello più invasivo in uno Stato liberale, a essere più in difficoltà per l'assenza di una tavola di valori se non generalmente, quanto meno ampiamente condivisi. Ma di qui anche la necessità, Rampioni non lo nasconde, della ricerca di quello che in altre epoche si sarebbe qualificato come un equilibrio più avanzato, perché, se è vero che nel processo legislativo democratico un ruolo determinante è rappresentato dal principio di maggioranza, tuttavia proprio nel campo penale sarebbe necessario mitigare il riconoscimento alla maggioranza della determinazione dell'area della penalità, con l'opportunità di una maggioranza qualificata(almeno) per l'introduzione di nuove norme penali.

Di sicuro, il riconoscimento del carattere storicamente condizionato degli interessi meritevoli di protezione non evita la riflessione sul perimetro della tutela penale e sulla selezione degli interessi stessi. E allora, sotto il primo profilo, lo strumento concettuale privilegiato deve essere quello della natura ultra-individuale degli interessi, caratterizzati da un numero indeterminato di posizioni coinvolte.

Mentre nel nostro ordinamento penale, la distinzione passa tra delitti e contravvenzioni, queste ultime esempio di una protezione "minore", non indirizzata alla protezione di beni in quanto tali, ma presidio della regolarità di procedure di soluzione di conflitti.