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di Lorenza Pleuteri


repubblica.it, 3 febbraio 2021

 

La denuncia dalla cella. Una lettera racconta i dettagli raccapriccianti sulla repressione della sommossa del 9 marzo: "Ci hanno lasciato morire. Io provavo a gridare, a chiedere aiuto. Invano. La gente veniva portata via senza denti, o svenuta dalle percosse". Il provveditore Cantone: "Testo da valutare con cautela. Chi sa denunci".

"Calci e schiaffi e manganellate a freddo, a rivolta finita. Insulti. Celle allagate dagli scarichi dei bagni. Il metadone custodito in una cassaforte con le chiavi lasciate nella serratura. Assistenza sanitaria negata o ritardata". E tre morti, "abbandonati come la spazzatura". Una lettera uscita dal carcere di Rieti in estate (resa ora pubblica dal blog di area anarchico-libertaria Oltreilponte.noblogs.org) aggiunge una drammatica testimonianza alle prime voci filtrate dalla casa circondariale, un'altra storiaccia di presunte violenze e di pesanti omissioni, tutte da verificare. Il Dipartimento regionale dell'amministrazione penitenziaria, in attesa che la procura concluda le indagini, rimanda al mittente le accuse, chiedendo cautela e ponderazione.

Il 9 marzo scorso, nella struttura terremotata da azioni di protesta vennero trovati senza vita Marco Boattini, 40 anni, il 28enne ecuadoregno Carlo Samir Perez Alvarez e Ante Culic, croato di 41 anni. I tre decessi furono attribuiti (prima ancora delle autopsie) ad overdosi di metadone e psicofarmaci, così come è successo per altri 10 detenuti morti alla Dozza di Bologna, al Sant'Anna di Modena e durante o dopo il trasporto dal carcere emiliano ai penitenziari di altre città. Poi la mamma del ragazzo sudamericano, assistita dall'avvocata Simonetta Galantucci, si è rivolta alla procura e ha cominciato ad aprire qualche crepa nelle versioni ufficiali. Un compagno di detenzione del figlio, visitato sommariamente qualche ora prima e agonizzante in cella, avrebbe chiesto aiuto per una notte intera. Ma nessuno sarebbe andato a vedere.

E anche per Carlo i soccorsi arrivarono troppo tardi. Altri reclusi di Rieti avevano segnalato situazioni pesanti al garante nazionale dei detenuti, persone offesa nelle indagini in corso. Una telefonata arrivata ad un parente parlava di pestaggi indiscriminati e di persone che "cercavano almeno di ripararsi la testa". Adesso la lettera-denuncia che avalla, integra, accusa. E sbatte in faccia a magistrati e investigatori altre informazioni da approfondire, cercando conferme (o smentite), con tutti i limiti e i vincoli che ci sono per gli scritti privi di firma e senza garanzie di autenticità.

"Abbiamo iniziato la rivolta - spiega l'estensore della missiva, protetto dall'anonimato - per la solidarietà verso gli altri detenuti e per i nostri diritti negati senza motivo o almeno senza rassicurazioni... Era il 9 marzo. Prima della chiusura abbiamo sfondato telecamere e cancelli del carcere - riconosce - senza toccare uno solo degli assistenti, anzi dando loro la possibilità di scappare.

Abbiamo preso il controllo del carcere arrivando fino sopra l'edificio, abbiamo contrattato con le istituzioni a lungo perché ci garantissero risposte, rassicurazioni, diritti, infine abbiamo deciso, dopo diverse ore, di restituire il carcere e il controllo alle istituzioni col patto di raggiungere un'intesa e che non ci fosse fatto nulla, come noi non avevamo fatto a loro fisicamente. Siamo rientrati nelle celle di nostra volontà restituendo il carcere".

Il racconto continua, duro, incalzante: "Alcuni di noi si sono feriti durante la rivolta, altri hanno avuto accesso a farmaci pericolosi come il metadone che era in una cassaforte nell'infermeria con le chiavi attaccate, chiavi che se fossero state tolte avrebbero salvato vite (nelle comunicazioni ufficiali fin qui rese note non si fa cenno a sostanze potenzialmente pericolose custodite in modo non adeguato e non sicuro, ndr). Ma non è bastato tutto questo, nel giorno a seguire e nei mesi fino a oggi abbiamo passato e ho visto ogni genere di sopruso, abuso di potere.

"Per cominciare la sera stessa chi è stato male per le medicine non è stato subito portato all'ospedale. E infatti i 4 morti (3 uomini deceduti dopo la rivolta più uno a distanza di un mese e mezzo, un 31 indiano spirato ufficialmente per cause naturali e rimasto fuori dal macabro bollettino delle sommosse, ndr) lo sono perché, dopo che noi li abbiamo consegnati ai dottori e istituzioni finché ricevessero assistenza, hanno subito un primo soccorso e sono stati riportati a morire in una cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura.

"Solo il giorno successivo chi era sopravvissuto ha ricevuto assistenza ed è stato portato in ospedale. Chi non ce l'ha fatta, non ce l'ha fatta perché è stato lasciato morire senza un motivo o perché forse ancora non se ne aveva uno per farlo vivere. Con la speranza di cancellare tutto, di nascondere ciò che era successo".

Non è finita. "Per noi che invece eravamo lì, nei giorni a seguire non è stato facile dopo aver portato via i cadaveri il giorno successivo, trascinati come immondizia in un sacco, e ciò lo dico perché l'ho visto con i miei occhi dalla cella, sono saliti i celerini, le squadrette carcerarie. Sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato chi più chi meno e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano "merde, testa bassa!" "vermi" e quando l'alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte.

"Ricordo che per due giorni non passò neanche da mangiare e prima di cinque non avevamo potuto contattare neanche i nostri familiari. Io stesso sono stato in una cella allagata, bagno rotto dalle perquisizioni, nella merda più totale che c'era nella cella ho dormito in una palude senza coperte o zozze e bagnate; per tutti quei giorni ho provato a gridare, lamentarmi ma o mi veniva detto: "è quello che meriti merda" o venivo picchiato dalle squadre di celerini.

"Sono stato fortunato perché ho visto gente trascinata fuori senza denti o svenuta per le percosse, ho urlato a chi lo faceva per prendere anche la mia parte ma fortuna e caso sono ancora qua, altri, invece, non ci sono o sono stati trasferiti lontano e i più sfortunati hanno preso altre botte all'arrivo di un altro istituto. Abbiamo subito tutti in quei giorni, alcuni meno, altri più. Ci hanno tolto o volevano toglierci la dignità, ma voglio dirvi una cosa, non ce l'hanno fatta perché anche in quei giorni ci davamo manforte, c'erano risate, c'era la voglia di alzare la testa anche se ci veniva spinta giù con la forza, di guardare anche se ci veniva detto di non farlo, non ci siamo arresi mai e siamo ancora qua con la voglia di vivere e di ridere ma con la consapevolezza e il ricordo di ciò che è stato e degli amici persi e dei torti subiti in nome della loro giustizia che giustizia non è, ad oggi - è la situazione a giugno - ci troviamo chiusi 20 ore su 24, 2 ore alla mattina 2 dopo pranzo, non ci sono attività ricreative così biblioteca, palestra, niente".

Possibile? Esagerazioni e calunnie? O frammenti di verità? Il provveditore dell'amministrazione penitenziaria per il Lazio, Carmelo Cantone, non si sottrae alle domande. "I tre morti di Rieti, visti dall'esterno, devono preoccupare. La magistratura sta indagando e andrà a fondo. Io sono tranquillo. Da quelle risulta a me e da quello che ho constatato, andando di persona in carcere, non c'è stata alcuna "macelleria messicana".

"La lettera uscita adesso non la conoscevo, credo vada pesata e soppesata con cautela. Durante il mio sopralluogo - prosegue - ho incontrato i detenuti di tre reparti, uno ad uno. Lo stesso ha fatto il garante, giorni dopo. A tutti è stato chiesto se avessero qualcosa da segnalare. Nessuno ha denunciato abusi o sottovalutazioni, non a me, non alla direzione.

Nessuno aveva segni evidenti di ferite o lesioni. Alle persone recluse è stato chiesto di dare una mano per ripulire e risistemare il carcere, devastato. La maggioranza ha accettato di collaborare. Ci sono state perquisizioni mirate, due volte. Lo scopo - spiega - non è stato punitivo. C'era la necessità di cercare le chiavi dei reparti che non si trovavano ed eventuali dosi di metadone o altri medicinali. Non mi risultano azioni violente o ritorsioni neppure in questa fase.

"Sull'assistenza sanitaria torno a chiedere: se qualcuno ha qualcosa da denunciare, si faccia avanti. La causa del decesso che risulta, per i tre morti, è l'overdose. Ritardi nei soccorsi? Sottovalutazioni? No, non penso. A me, al momento, non risultano anomalie dal punto di vista amministrativo e gestionale. Su eventuali profili penali, come ho detto, sta lavorando la magistratura".

E il personale - va ricordato - soccorse altri reclusi che avevano bisogno di cure, portati in ospedale. Uno aveva problemi dovuti alla mancanza di insulina, trafugata durante la rivolta. Otto presentavano sintomi da intossicazione da oppiacei. Tutti poi sono rientrati in carcere. Uno, il 31enne di origini indiane S.G., è morto nel carcere di Terni il 24 aprile, ufficialmente per cause naturali.

Nel carcere di Rieti, come ha ricordato il provveditore Cantone, dopo la rivolta e i decessi erano stati in vista il presidente dell'ufficio nazionale del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e la collega Daniela de Robert, accompagnati dal garante del Lazio Stefano Anastasia, sollecitato a intervenire dai reclusi.

"Oltre a constatare i gravi i danni e il ripristino dei servizi centrali di luce, acqua calda e riscaldamento - riferì l'agenzia Ansa, il 20 marzo - hanno avuto l'opportunità di esaminare i dati delle tre persone decedute sulla cui morte è stata avviata l'indagine dalla competente Procura della Repubblica. Hanno anche appurato le modalità secondo le quali sono state avvisate le famiglie, riscontrando l'avvenuta tempestiva informazione".

L'avvocato che seguiva Marco Boattini, Giovanni Tripodi, aveva invece raccontato: "Il mio cliente mi scriveva o telefonava una volta alla settimana. Le comunicazioni a un certo punto sono cessate, senza spiegazioni. Gli ho mandato una lettera in carcere. La busta mi è ritornata indietro con scritto sopra: "deceduto". Non ho avuto alcuna comunicazione dall'istituto né dalla procura. Un compagno di cella, poi uscito, mi ha riferito che Marco ha bevuto parecchio metadone e forse ha ingerito anche degli psicofarmaci. Ma quel poco che si è saputo, sulla dinamica dei fatti, non riesce a convincermi".