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di Giovanni Verde


Corriere del Mezzogiorno, 1 dicembre 2020

 

Avevo deciso di non scrivere più del nostro sistema di giustizia. Per sfinimento. Mi ero ben guardato dal commentare l'ennesima assoluzione di Bassolino. Quel che avevo da dire l'avevo già detto infinite volte nel passato.

La meritoria iniziativa del Corriere del Mezzogiorno e soprattutto il lucido editoriale di Demarco mi impediscono di stare zitto. Sarò ruvido e franco. Dovremmo smetterla, tutti, di rivolgerci ai pubblici ministeri, quasi che siano santuari in cui riposa la verità e l'onestà. Dovremmo smetterla di rivolgerci loro per chiedere pareri e opinioni quando si tratta di questioni di giustizia, di offrire loro la vetrina delle trasmissioni televisive e radiofoniche, di fare ricorso a loro per candidature di prestigio o per incarichi di responsabilità.

Se riuscissimo a farlo, sarebbe un bel modo per affrancare la società civile da una sorta di complesso di inferiorità. E ciò va detto senza considerare che quando un pubblico ministero o un ex pubblico ministero accetta di candidarsi per un partito politico, compromette l'attuale e la passata sua attività, che è intrisa di discrezionalità e che, pertanto, non può non essere o non può non essere stata influenzata dalla ideologia.

Anch'io sono rimasto basito dalle dichiarazioni del procuratore Lepore. Ma non meno mi preoccupano le convinzioni espresse dall'eurodeputato Roberti. Egli riconosce che quando arriva una "informativa" il sostituto è tenuto ad aprire un fascicolo, ma non esclude che "per un motivo o per l'altro, si proceda con troppa leggerezza a iscrivere nel registro degli indagati". Ammette, perciò, che vi è e non può non esservi una inevitabile (e guai se non fosse così) necessità di selezionare l'indagine che va coltivata da quella che va messa da parte. Quale è, tuttavia, la garanzia che la selezione sia fatta in maniera corretta?

"Lavorando con scrupolo e con distacco", dice Roberti. Ma è possibile, mi chiedo da anni, che ci possiamo accontentare della assicurazione che i pubblici ministeri (che svolgono, lo ripeto fino alla noia, un'attività tutta intrisa di valutazioni) lavorino "con scrupolo e con distacco", là dove i sistemi di controllo sul loro operato sono tutti interni allo stesso corpo dei magistrati? E lo stesso Roberti, che ha svolto tutta la vita queste funzioni, di sicuro con "scrupolo e distacco", non pensa che il cittadino, ripercorrendo la sua vita professionale, possa essere attraversato dal dubbio che l'ideologia, oggi apertamente da lui professata, abbia talora influito sulle sue scelte inevitabilmente discrezionali?

Mentre scrivo queste note ho sotto gli occhi una notizia. La Procura generale presso la Corte di cassazione ha iniziato o sta per iniziare 27 procedimenti disciplinari nei confronti di 27 magistrati per comportamenti disdicevoli. La Procura ha appreso le notizie su cui ha fondato le incolpazioni dalle trascrizioni delle conversazioni conservati nel o nei cellulari sequestrati dalla procura di Perugia a Palamara. Erano conversazioni private che, in un Paese civile, avrebbero dovuto essere distrutte, perché prive di qualsiasi rilevanza penale.

La procura di Perugia le ha rese ostensibili (a suo dire, perché, attesa la mole, non era in grado di fare selezione) e la Procura generale ne ha amplificato la diffusione, mettendo alla gogna 27 magistrati e non facendo un bel servizio alla stessa magistratura. Trovo il tutto di un'incredibile inciviltà e sono davvero preoccupato che il massimo vertice dell'organismo titolare dell'azione penale si vanti dell'iniziativa. Se ciò fosse capitato quando ero al Consiglio superiore avrei chiesto un intervento del Capo dello Stato, per segnalare la pericolosa deriva delle nostre istituzioni (e, forse e paradossalmente, un intervento della prima commissione).

Un potere del tutto incontrollato e incontrollabile, quale è quello delle Procure, può esser utilizzato non solo perché, anche se inavvertitamente, si cede alla propria ideologia (come lamentano i politici), ma anche per una sorta di "furore ideologico" (come può lamentare un qualsiasi cittadino e, anche, un magistrato colpito nel proprio "io").

È da tempo che denuncio che il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale è un'autentica ipocrisia inserita nella nostra Costituzione. È da tempo che denuncio che su questa ipocrisia è costruita l'impalcatura del Titolo quarto della nostra Costituzione, che ha dato protezione costituzionale all'unificazione in un unico corpo, la magistratura, dei giudici e dei pubblici ministeri. Un'impalcatura che finché rimane come è attualmente, renderebbe inutile e addirittura pericolosa la separazione delle carriere. Pochi condividono le mie idee.

Si obietta che l'obbligatorietà è il precipitato del principio di eguaglianza. Ma l'eguaglianza è imprescindibile nel momento del giudizio. Nel momento dell'azione ciò che si può pretendere è, come dice Roberti, lo "scrupolo e il distacco". Ce lo insegnano quasi tutte le Nazioni che si sono ben guardata dall'inserire nelle loro Costituzioni un analogo principio. E non penso che siano nazioni meno civili della nostra. I colleghi penalisti sono sempre stati tiepidi nei riguardi di queste mie idee. Non vorrei che per loro l'attuale sistema vada bene, perché a loro più che la giustizia, interessa il processo.