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di Giorgio Mannino


Il Riformista, 20 ottobre 2020

 

A Palermo la manifestazione in difesa del questore condannato per il caso Shalabayeva: "Perché non coinvolgono i pm che decisero l'espulsione?". L'affondo di Fava: "Chi ha mentito resta libero".

"Una sentenza di imbarazzante e manifesta ingiustizia: chi volle quell'espulsione, fornendo informazioni false, la fa franca; chi si trovò a dover applicare la legge, in galera. L'umiliazione per Renato Cortese, per gli altri condannati e per questo paese in cui, sul palcoscenico dell'antimafia da operetta, si esibiscono ogni giorno eserciti di narcisi petulanti e inoffensivi, resta intatta. Ci sarà un processo d'appello, è vero. Pur rispettosi di ogni sentenza penso che occorra far sentire lo stupore e l'imbarazzo per la condanna di chi applicò le disposizioni ricevute e per la graziosa immunità riconosciuta a chi quelle disposizioni le impartì".

Claudio Fava, presidente della Commissione regionale Antimafia all'Ars, commenta così la sentenza di condanna a cinque anni emessa dal tribunale di Perugia nei confronti - tra gli altri - di Renato Cortese, questore di Palermo, per il sequestro (avvenuto nel 2013) e l'estradizione di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako ricercato in patria per motivi politici. Un pronunciamento, quello della corte perugina, che ha sconvolto parte del mondo della politica e della società civile. Ieri pomeriggio, infatti, a Palermo, davanti il Teatro Massimo, si sono riunite associazioni, rappresentanti dell'amministrazione comunale e molti poliziotti "per solidarizzare col questore Cortese che ha contribuito, con grande impegno, a combattere la criminalità organizzata e a onorare lo Stato".

L'uomo che ha infranto la latitanza record del boss Bernardo Provenzano sarà sostituito, nei prossimi giorni, da Leopoldo Laricchia. Una disposizione che arriva dal ministero dell'Interno e dai vertici della Polizia: "Con la decisione presa si riafferma il principio che la polizia osserva e si attiene a quanto dalle sentenze", ha detto Franco Gabrielli. Ma l'indignazione, in piazza, si tocca con mano.

C'è persino Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino ucciso in circostanze tutte da chiarire il 5 agosto 1989, che agitando il cellulare mostra una foto che immortala il momento della cattura di Provenzano con un giovanissimo Cortese al suo fianco: "È ingiusto che abbia pagato soltanto lui. Ha pagato il pesce più piccolo, l'ultimo anello di una lunga catena di comando rimasta impunita. La sentenza non ha fatto giustizia", ha detto Agostino. Ed è proprio contro la sentenza, ritenuta ingiusta, che molti poliziotti si scagliano.

"Sono convinto - ha detto Carmine Mancuna, so, ex politico e figlio di Lenin Mancuso, ucciso da Cosa nostra insieme al giudice Cesare Terranova il 25 settembre 1979 - che la sentenza sia iniqua. A pagare non possono essere soltanto quanti hanno eseguito gli ordini. Quindi credo sia importante che i giudici accertino le responsabilità ai vertici".

Mancuso, infine, giudica "ingiusto il trasferimento, perché, intanto, si tratta di una sentenza di primo grado e Cortese ha servito con grande onore lo Stato". Un'idea condivisa dai tanti presenti che affollano piazza Verdi. Restii a credere che per Cortese possa esserci una forma di riabilitazione: "Era destinato a diventare capo della Polizia. La sua carriera, ai vertici, ormai è finita", sussurra qualcuno.

E rimbalzano tante domande senza risposta: "Perché Angelino Alfano (allora ministro degli Interni, ndr) tace? Perché le sue dimissioni, allora chieste a gran voce, furono respinte? Chi aveva deciso quell'operazione? Perché Eugenio Albamonte e Giuseppe Pignatone che diedero il via all'espulsione non sono stati coinvolti nell'inchiesta?", si chiede un poliziotto che preferisce rimanere anonimo. Mentre Palermo si appresta a dare il benvenuto al nuovo questore: "Siamo qui anche per Laricchia, per augurargli buon lavoro", dicono gli organizzatori del raduno. Parole che mal nascondono la grande amarezza.