sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Roberta Spadotto

 

Gente, 3 ottobre 2020

 

"C'è del buono pure in chi ha commesso i reati più efferati", dice Giacinto Siciliano. Ha trascorso 26 anni dietro le sbarre. Li ripercorre in un libro. Per chi sta fuori il carcere è solo un luogo di sofferenza. Se si passa davanti a San Vittore, che si trova nel pieno centro di Milano, si tende a distogliere lo sguardo, spinti dall'idea che oltre quelle spesse mura non circoli la minima speranza.

Non è così. Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale dal 2017, ha un'idea della carcerazione che si sposa perfettamente con l'articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Siciliano si definisce "un servitore dello Stato" e ha il senso della legalità e del rispetto delle regole inciso nel Dna: prima di lui suo padre diresse San Vittore negli "anni di piombo" e suo nonno fu comandante degli agenti di custodia in diversi istituti di pena. Ma lui, se possibile, è andato oltre.

"Io credo che esista del buono in ogni persona, anche in chi ha commesso reati molto gravi", dice a Gente seduto alla scrivania del suo ufficio dentro il carcere, dove passa interamente le sue giornate e le sue notti (vive con la moglie e i tre figli in un alloggio interno). "Il mio dovere è quello di dare una possibilità: nessuno nega che chi sta qui abbia commesso reati anche efferati. Ma tutti noi siamo in divenire, io compreso, e chi ha sbagliato può imparare dai propri errori".

Per fare un bilancio della propria vita e della propria carriera professionale (26 anni passati da direttore di carcere, da Trani a Sulmona, passando dal carcere di massima sicurezza di Opera dove è stato 10 intensi anni) Giacinto Siciliano ha scritto il libro "Di cuore e di coraggio" (Rizzoli, 18 euro). "Ci vogliono cuore e coraggio", ci spiega, "per poter anche solo immaginare di trovare qualcosa di salvabile in un detenuto che si è macchiato di un crimine orrendo. Il mio compito è quello di sospendere il giudizio".

Siciliano lo ha fatto con tutti: ladri, assassini, mafiosi. "Ci sono volte che va bene, altre no". Uno dei suoi "fiori all'occhiello" è Francesco Squillaci, ergastolano dalla storia feroce, diventato poi pentito di mafia anche grazie al lavoro di recupero avviato durante la lunga detenzione a Opera sotto la direzione di Siciliano: un percorso fatto di "alti e bassi", corroborato da attività artistiche come i musical. Nel 2011 Siciliano autorizzò (per la prima volta nella storia penitenziaria italiana) 14 condannati a pene pesanti, tra i quali Squillaci, a uscire dal carcere per recitare nello spettacolo La luna sulla capitale in scena al teatro degli Arcimboldi.

"Avrebbero potuto evadere", dice Siciliano. "In tutti però prevalse il senso di squadra e del valore di quello che avevamo realizzato insieme. Quella volta vincemmo tutti". Certo, con alcuni detenuti è più difficile. "Totò Riina", spiega Siciliano che, a causa anche delle minacce ricevute dal boss mafioso scomparso nel 2017, vive sotto scorta, "non avrebbe mai abbassato le barriere". Di Olindo Romano, condannato con la moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba del 2006, il direttore si lascia fuggire: "È diverso da come lo si immagina".

Ora, a San Vittore, tutto si svolge in modo diverso. "Qui la permanenza media dietro le sbarre è di 90 giorni", dice Siciliano, "dunque non si può fare con i detenuti un percorso a lungo termine". Il direttore conosce tutti i carcerati, o quasi. "Mi piace girare, parlo con loro, voglio conoscere". Sul suo tavolo c'è il foglio delle entrate e uscite quotidiane, circa 15 al giorno.

"A momento ci sono 872 uomini, 75 donne e due bambini. Riguardo all'annoso tema del sovraffollamento, si comincia a essere troppi quando la quota degli uomini è sopra le 850 unità". Ma il direttore non è un uomo che si sottrae alle sfide. "Vorrei portare la bellezza in questo luogo", dice. "Non parlo dell'estetica. Intendo più cura, più attenzione alle persone". Questo aspetto si è concretizzato durante la pandemia. "San Vittore, come un piccolo paese autonomo, ha dovuto riorganizzarsi", racconta.