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di Mauro Palma*

 

La Repubblica, 30 luglio 2020

 

La pandemia di Covid-19 impone la necessità di uno sguardo nuovo sulle carceri. Qua e là nelle passate settimane si sono sentite voci che indicavano come il lockdown avesse implicitamente funzionato quale esperienza unificante, ponendo tutti nella stessa situazione di privazione della libertà: sia chi ne era già privato perché ristretto oltre cancelli e muri, sia chi doveva rimanere a casa, spesso lontano da persone care.

Non è stato così. Nei luoghi dove la libertà era già precedentemente negata, qualunque ne fosse la ragione, l'ansia per il rischio di un contagio da cui sarebbe stato impossibile difendersi si è aggiunta a quella che tali spazi chiusi di per sé generano. Una doppia ansia che è spesso sfociata nell'angoscia.

La nuova situazione ha però portato con sé anche la necessità di un nuovo sguardo verso questi mondi generalmente poco visibili e spesso visti soltanto in occasione di eventi drammatici. In particolare, verso il carcere. Uno sguardo che, incalzato anche dalle rivolte nei primi giorni di chiusura, non ha potuto evitare di leggere un dato: i provvedimenti incentivavano la detenzione domiciliare per ridurre il numero delle persone detenute e creare spazi per possibili isolamenti sanitari, ma molti rimanevo dentro perché privi di "fissa dimora". Da qui, la necessità di guardare del carcere anche la composizione sociale e non limitarsi ai due, pur importanti, temi che assorbono il dibattito attorno a esso: la sicurezza e il sopraffollamento.

Il primo tema è ovviamente essenziale. Ma le persone che necessitano di una particolare osservazione e uno specifico "regime penitenziario" sono attorno alle diecimila, su un totale di circa cinquantatremila e grave è la miopia di leggere anche gli altri quarantatremila con questa lente. Non considerando, per esempio, che oggi più di novecento persone sono in carcere per una pena inferiore a un anno e altre duemila per una pena tra uno e due anni - non residui di pene maggiori, ma proprio quelle irrogate. Difficile dare un senso a una detenzione così breve, se per elaborare un qualsiasi progetto di "trattamento" occorre una osservazione di mesi.

Il rischio è che si tratti solo di un periodo recluso che spesso si replicherà, in una successione di entrate e uscite dal carcere che segnano vite ai margini della società, senza mai intervenire realmente su di esse. Perché queste presenze sono indicative dell'assenza di reti di supporto sociale e legale che altrimenti avrebbero permesso di accedere alle misure alternative che il nostro ordinamento prevede. Indicano problemi che si riverberano sul carcere, ma che questo non può risolvere, perché sono il risultato di altre assenze che interrogano il territorio e le sue istituzioni per le risposte mancate a situazioni che andrebbero in altro modo affrontate, anche per una maggiore sicurezza della collettività.

Qui si salda la limitatezza anche del secondo tema, relativo all'affollamento. Che, preso in sé finisce col prestarsi a soluzioni geometriche di spazi individuali da assicurare o edilizie, come taluno a volte ripropone. In realtà, proprio quell'insieme di persone condannate a pene brevi o che hanno un breve residuo ancora da scontare - per circa ventimila persone meno di due anni - pone domande sulla previsione di strutture diverse che, pur mantenendo il doveroso aspetto sanzionatorio, si articolino in modo differenziato sia di controllo che di supporto per costruire percorsi che, peraltro, nel medio-lungo periodo finirebbero per essere anche economicamente più convenienti. Forse allora i due temi prevalenti andrebbero immersi in quello più ampio del significato delle pene. Non perdiamo l'occasione di un nuovo sguardo.

*Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale