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di Giancarlo Caselli

 

La Stampa, 30 luglio 2020

 

I fatti terribili successi nel carcere di Torino, dei quali è in corso la verifica investigativo-giudiziaria, non possono cancellare la lunga tradizione di attività trattamentali anche innovative che lo hanno contraddistinto a partire dagli anni 80.

L'elenco è lunghissimo. Con la gestione di una delle prime "aree omogenee" per instaurare un dialogo costruttivo con i terroristi dissociati; i primi approcci comunitari con i malati di Aids; i corsi per ebanisti dell'istituto Plana; lo sviluppo del polo universitario e la comunità per tossicodipendenti "Arcobaleno": si avvia una sorta di staffetta di umanità penitenziaria (pur a fronte di crisi enormi date dal perenne sovraffollamento), poi sviluppata dal direttore Pietro Buffa, "scovato" ad Asti da Francesco Gianfrotta, un giudice torinese che allora lavorava col sottoscritto a Roma nel Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Così Torino registra, dal 2000, una sequenza di risultati imponenti.

Detenuti che studiano e conseguono un diploma o la laurea e detenuti al lavoro nelle cooperative. Corsi di formazione per il personale che, con ruoli diversi, opera in carcere. A riprova del nuovo clima determinatosi nell'istituto crolla, fino a rimanere azzerato per anni, il numero dei suicidi. Per rimediare al "vuoto" del tempo carcerario si crea una "scuola accoglienza" che ruota mese dopo mese nei reparti più difficili, con eccellenti operatori che oltre a insegnare cercano di ridare alle persone un po' di dignità.

Si apre la sezione Sestante, pensata per il trattamento del disagio psichico non collegato al reato commesso e gestita da personale specializzato dell'Asl, in anticipo sull'attuazione - che avrà inizio molti anni dopo - della riforma della tutela della salute in carcere.

E poi esperienze ludiche ma non meno importanti per dare una certa vivibilità a quel mondo rinchiuso: il "torneo della speranza"; il teatro sociale, che negli anni ha avvicinato la città a quel suo pezzo separato, isolandolo un po' di meno; e poi la "Drola", prima squadra dì rugby inventata dietro le sbarre da un inossidabile operatore, sempre pronto - coi suoi baffoni bianchi - a fare del bene con una palla ovale.

Risultati straordinari, che han fatto del carcere di Torino un istituto aperto alla città e proiettato sul territorio che riceverà il detenuto una volta scontata la pena. Offrendo la dimostrazione concreta che "un altro" carcere è possibile; che la pena detentiva può essere davvero una pena utile: nel senso che se scivola nelle spirali della persecuzione vendicativa, finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto è stato ferito. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se (quando lo accetti) non viene aiutato a capire - anche con le modalità di espiazione della pena - il perché del suo errore, la punizione incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile.

Si tratta di una "mission" che deve essere condivisa e perseguita con convinzione da tutte le componenti dell'universo penitenziario. Quando ciò si verifica, molto dipende dal carisma di chi governa la peculiare complessità di un grande istituto penitenziario. In una perenne calca detentiva che spesso supera di molo la capienza regolamentare, la popolazione di un singolo carcere comprende, inevitabilmente, persone dal profilo molto diverso: classificate in alta sicurezza e in regime di custodia attenuata; non classificate e sex offenders; stranieri e tossicodipendenti; con pene brevi o medio-lunghe; o "semplicemente" in attesa di giudizio.

Rispetto a ciascuna di queste categorie ambiente e regime detentivo devono essere diversi. Per ottenere da tutti i collaboratori un impegno mirato ad un trattamento differenziato dei detenuti occorre una riconosciuta autorevolezza del direttore: interfaccia di un modo fermo, non autoritario, di rapportarsi a quanti lavorano in carcere e di un atteggiamento lungimirante, non buonista, con cui affrontare i problemi.

Tutto ciò si è verificato per anni nel carcere di Torino. Che ovviamente non è mai stato un luogo felice o ameno, ma per decenni è stato un posto dove il lavoro di alcuni suoi direttori e di tantissime persone da loro sapientemente coinvolte ha cercato di dare una speranza.

Il più bel riscontro, oltre ai riconoscimenti che il ministero della Giustizia ha tributato, magari adottando a livello nazionale alcune prassi penitenziarie torinesi, lo si deve al sindaco Chiamparino, secondo cui il carcere della città non ha mai rappresentato un problema del quale preoccuparsi o vergognarsi ì: era anzi stato un continuo stimolo da seguire nella sua creatività ed umanità. A questo modello, nonostante la bufera contingente, si deve tornare al più presto.

Con il contributo di tutti, a partire dai dirigenti nazionali del Dap fino a ogni componente sana o rinnovata del personale torinese. E con il sostegno dell'amministrazione e dei politici locali, oltre che della società civile in tutte le sue articolazioni: perché la civiltà di una comunità si misura anche da come funziona il carcere che ne fa parte.