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di Michele Passione*

 

Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2020

 

C'è una ragione su tutte per la quale non ho avuto esitazioni ad accogliere l'invito della Fondazione Ferrarese, sebbene costretti ad un'interlocuzione ancora dolorosamente a distanza (che, tra l'altro, impedisce di guardare in faccia chi ascolta, e gli sguardi sono tutto): l'invito a riflettere sulla "etica della responsabilità sociale" quale conseguenza delle proprie azioni (od omissioni).

Proverò a dire qualcosa su questo. Del resto, durante il lungo periodo di lockdown non sono mancate le voci di chi ha preso posizione su forme di regolazione dei fenomeni sociali determinati dal virus, e tra esse quelle di non pochi giuristi, che hanno ragionato allargando lo sguardo oltre il qui ed ora.

Già l'etimo della parola Avvocato rivela il compito e la difficoltà di sottrarsi ad esso; spingendosi oltre, questo ciclo di incontri, che pone l'Avvocato al centro, propone la stimolante riflessione di una nuova declinazione del termine, non solo intesa come "chiamata" per porsi accanto a chi ha bisogno di aiuto per la difesa (o rivendicazione) dei suoi diritti, ma come (ad)vocazione sociale, utile a "rinsaldare un rapporto virtuoso tra gli operatori del diritto e la cittadinanza stessa".

Così, attraverso la narrazione di casi celebri e battaglie ardite, riflettendo sull'importanza dell'impegno profuso e delle numerose pietre d'inciampo lungo la strada, oltre che sui risultati raggiunti, si sarà comunque ottenuto un risultato: considerare che vale sempre la pena provarci.

La storia che ci occupa è lunga e dolorosa, troppo a lungo "giustificata" da bias di comodo.

Per quanto mi riguarda, comincia circa un anno fa: mentre bevo una birra ricevo una telefonata, qualcuno che chiede aiuto. Una Collega, poi diventata Amica. Si tratta di assistere una persona davanti alla Corte, una persona il cui destino è scritto nel suo fine pena. MAI, c'è scritto.

Le propongo una mano, ma la invito a far da sola, a fare presto (il tempo corre, e bisogna spicciarsi per l'atto di intervento), a fare bene. L'occasione è storica. "non lasciarlo solo davanti alla Corte", le dico; occorre che ci sia la voce della Difesa.

Passano i giorni, e proprio il giorno in cui spedisco al colle il mio atto di intervento per altra causa (per un minorenne, oggetto di altre preclusioni; ma questa è un'altra storia), vengo raggiunto da una nuova richiesta, questa volta di condivisione della Difesa. Mancano due giorni. Allora scrivo. Questo è l'inizio, la fine è nota (anche se la storia non è ancora finita, e altri capitoli stanno per aggiungersi).

Tralascio il Diritto, ché altri qui, e meglio di me, hanno detto e diranno: mi limito a riflessioni sparse, partendo da una domanda (che pure si misura con uno dei temi implicitamente affrontati al § 8.2 del Considerato in diritto, oggetto di riflessione del Giudice delle Leggi nella sent. 253/2019). "Quanto pesa un giorno di carcere? O un secondo, o un'ora, o una vita?" (L. Santa Maria). La Corte ha detto poco dell'Uomo in carcere, e la sentenza sembra parlare più ai cittadini che ai condannati. Eppure l'Uomo è sempre molto di più del reato che ha commesso.

Saltato il limite, considerato che "ciò che limita, almeno in parte, fonda" (V. Manes), sarà il cammino, non il passato, a condurre al futuro. Senza entrare in tecnicismi, per quel che mi compete segnalo come in relazione alla prudenza che ha accompagnato la Corte nella stesura della storica sentenza (esposta a - e in qualche modo "condizionata" da - irragionevoli strumentalizzazioni politiche e mediatiche) potrà (e dovrà, dai difensori del Diritto) essere considerato che l'onere rafforzato circa il pericolo di ripristino dei collegamenti debba essere declinato in termini di attenta verifica del rischio di recidiva, senza cedere a nuovi automatismi, riconoscendo definitivamente la libertà di non collaborare, questa volta (e per sempre) finalmente oggetto di valutazione euristica.

Il tempo della pena non può dunque davvero più essere un tempo immobile, né in termini qualitativi (la pena certa, la giusta pena, è costituzionalmente mutevole, in ragione del percorso risocializzante intrapreso dal condannato) né quantitativi

L'ergastolo ostativo ha le ore contate; nel muro c'è finalmente la crepa che lo farà cadere.

Nessuna pretesa autoritaria (come quella suggerita dalla Dia in questi giorni: "qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia") potrà resistere alla considerazione che "il diritto è ordinamento del sociale, guai se il diritto si lega troppo all'autorità e diventa soltanto voce dell'autorità" (P. Grossi).

Se è vero che "si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti" (M. Palma), occorre rifuggire dall'aporetica tra Diritto e Giustizia, che finisce spesso col sovrapporre impropriamente concetti diversi (la colpevolezza e la pericolosità).

Stare accanto a chi ha bisogno, saper accompagnare il percorso e aiutare a rialzarsi, garantire diritti; nessuno è perso per sempre, e il libero arbitrio spesse volte è una scusa per chiamarsi fuori dai doveri di solidarietà sociale che la Costituzione impone.

Non bisogna dunque farsi condizionare dalla sfrenata "passione contemporanea" della punizione (D. Fassin), del resto denunciata anche dal Pontefice, ma avere riguardo alla finalità inclusiva, tanto più che "la funzione risocializzativa mira, in ultima istanza, ad evitare la recidiva e a proteggere la Società" (Corte Edu, GC, Murray c. Paesi Bassi; Corte Edu, Viola n.2 c. Italia).

La storia di P.P. è storia di tanti; comincia con la ricerca di un riconoscimento sociale e di marcatori di successo, cercato per strada con le pistole in mano. La bella vita e la morte; l'affiliazione a vent'anni, la fuga e la galera. (dal 1995). Col tempo, nel tempo lungo e freddo del carcere, la sopravvenuta devastante immagine di sé, la consapevolezza del disvalore dell'agito criminale, una maturata coscienza civile.

Per rispetto alla "funzione sociale" che sta nella formula di impegno con cui si comincia la professione, appare dunque evidente come sia indispensabile misurarsi quotidie con le più varie agenzie, con i bisogni, con i diritti, non solo coi codici e con le parti.

È il famoso aforisma di Einstein, che deve indurci a riflettere sempre, e a non desistere mai: "tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa, e la inventa".

*Avvocato