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di Luigi Manconi

 

Il Secolo XIX, 23 luglio 2020

 

Davanti ai fatti di Torino e di Piacenza, ciò che non va assolutamente detto, ma che già si sente dire, è: "Si tratta solo di alcune mele marce". La metafora è davvero infelice. Innanzitutto sotto il profilo ortofrutticolo, dato che anche pochi frutti andati a male possono guastare irreparabilmente l'intero cestino che li contiene.

Nel caso delle illegalità verificatesi in due strutture dello Stato, l'immagine appare ancora più sgualcita. Troppi i precedenti e, in un caso come nell'altro, la presenza di una rete di complicità, strutturata gerarchicamente, fino a un livello medio-alto di comando capace di assicurare un sistema di impunità fondato sulla connivenza e sulla omertà.

Le due vicende hanno tratti comuni. Il primo è rappresentato dalla tipologia di luogo dove si sono consumate le violenze. Carcere e caserma sono istituzioni totali (secondo la sempre valida definizione di Erving Goffman), al cui interno, gli operatori (in questo caso poliziotti penitenziari e carabinieri) vivono un'esistenza fortemente integrata, fatta di rapporti camerateschi e solidarietà virile.

Qui è fatale che si creino gerarchie informali tese a misurare il proprio potere - piccolo o grande che sia - nel rapporto di controllo su chi, di quella istituzione, risulta vittima: il cittadino detenuto o quello che - seppure occasionalmente - sia soggetto alla potestà di un funzionario dello Stato.

Sono queste, in sintesi, le condizioni che rendono possibili fatti inauditi quali: la riduzione di una caserma dei carabinieri a cellula criminale e la catena di comando che ha messo a tacere le tante denunce fatte dalla garante dei detenuti, Monica Gallo, degli orrori di quel carcere.

Poi, certo, pesano le personalità individuali e gli interessi delinquenziali e c'è, soprattutto, la sensazione di un ambiente che garantisce l'impunità. Sensazione non troppo infondata, considerate alcune circostanze: tanti, proprio tanti, sono gli episodi di illegalità che hanno visto coinvolti appartenenti alle forze di polizia e, in particolare, all'Arma dei carabinieri.

Quasi mai, forse mai, le denunce sono giunte dall'interno di quei corpi e dai loro vertici. Recentemente si sono avute alcune manifestazioni di resipiscenza, alle quali non hanno fatto seguito adeguati provvedimenti e concrete politiche di riforma.

Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha avuto parole aspre nei confronti della gestione dell'ordine pubblico durante il G8 di Genova del 2001 ("una catastrofe") e, prima, i suoi predecessori Manganelli e Pansa, avevano pronunciato parole autocritiche a proposito della morte di Gabriele Sandri e di quella Federico Aldrovandi.

Il Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, Nistri, una volta individuati i responsabili della morte di Stefano Cucchi, ha riconosciuto la gravità dell'accaduto con espressioni finalmente nitide. Ma, tutto ciò, è accaduto drammaticamente tardi. E sempre dopo. Dopo che le procure avevano indagato, dopo che un giornalista rigoroso o un politico attento, avevano denunciato, dopo che i reati commessi erano stati segnalati a chi di dovere.

Ma, troppo spesso, chi di dovere si è adoperato alacremente perché quegli allarmi finissero nell'oblio. In altre vicende, sono state le vittime o i loro familiari a fare del proprio dolore un'occasione di mobilitazione civile. Eppure, quante volte si sono dovuti arrendere non perché una sentenza negava loro giustizia, (è accaduto anche questo) ma perché pesanti ostacoli sono stati frapposti all'accertamento dei fatti.

È vero: la gran parte dei membri di questi apparati è costituita da persone per bene, ma ciò che davvero sembra mancare è una efficace rete di anticorpi. E, a creare tale rete, dovrebbero essere in primo luogo i vertici di quegli stessi apparati, attraverso un processo di democratizzazione interna, capace di smantellare tutte le sottoculture, le ritualità, le consuetudini fascistoidi che tuttora vi permangono. Un simile percorso, assai faticoso, non è stato né agevolato né incentivato da una classe politica che rivela una sorta di complesso di inferiorità.

Ma se quel processo di democratizzazione ritarderà ancora, il poliziotto, il carabiniere e l'agente carcerario continueranno a considerare il cittadino come qualcuno da sospettare o una minaccia da sventare o un nemico da sopraffare. E avremo solo ulteriori sofferenze.