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di Francesco Machina Grifeo

 

Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020

 

Corte di cassazione - Sentenza 22 luglio 2020 n. 21988. Non incorre nel reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, il rappresentante legale di una azienda in crisi, condannata al pagamento di una somma nei confronti di un creditore, che ceda il proprio credito più consistente. In tal modo vanificando la richiesta di pignoramento presso il terzo eseguita da lì a poco. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 21988 depositata ieri, che ha accolto con rinvio il ricorso del manager.

Secondo i giudici della VI sezione penale, infatti, va richiamato il principio espresso a Sezioni unite secondo cui per la configurabilità del reato "non è sufficiente che gli atti dispositivi di cui all'art. 388, comma primo, cod. pen., compiuti dall'obbligato sui propri o altrui beni siano oggettivamente finalizzati a consentirgli di sottrarsi agli adempimenti indicati nel provvedimento, rendendo così inefficaci gli obblighi da esso derivanti, ma è necessario che tali atti abbiano natura simulata o fraudolenta, siano cioè connotati da una componente di artificio, inganno o menzogna concretamente idonea a vulnerare le legittime pretese del creditore".

"È in altri termini indispensabile - prosegue la Corte - che l'atto si qualifichi per un quid pluris rispetto alla idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così può giungersi, in un'ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante" (Cass. n. 12213/2017).

Quanto alla nozione di atto fraudolento, spiega ancora la Corte, le stesse Sezioni unite hanno precisato che deve considerarsi atto fraudolento "ogni comportamento che, formalmente lecito, sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno" (n. 25677/2012), ovvero che è tale "ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero ovvero qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione".

La Corte di appello invece non ha applicato alcuno di questi principi. Non ha infatti spiegato: a) in cosa sarebbe consistito il carattere fraudolento della cessione del credito; b) quale sarebbe stato l'effetto di quell'atto sul patrimonio della società cedente; c) quale fosse in concreto ed effettivamente, la situazione economico patrimoniale della società cedente e perché la cessione aumentava il rischio di svuotamento della garanzia patrimoniale. Giudizio da rifare dunque da parte di un'altra Sezione della Corte perugina.