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di Giuseppe Legato

 

La Stampa, 23 luglio 2020

 

Ad agosto del 2019 la Procura di Torino aveva già chiaro cosa stesse accadendo nella "pancia" del carcere Lorusso e Cutugno. Botte, sputi, pestaggi, umiliazioni ai detenuti. In una parola torture. Uno degli agenti indagati ha il telefono intercettato. Nelle cuffie degli investigatori finisce una chiamata alla fidanzata.

"Oggi ci siamo divertiti. Sembrava un carcere di Israele degli anni Cinquanta". Lei domanda: "Li avete menati di nuovo?". Silenzio, pausa: "Sì". Secondo il pm Francesco Pelosi, titolare dell'inchiesta che scuote uno dei più importanti penitenziari italiani, è questo uno dei tanti casi in cui nemmeno si conoscono i nomi delle vittime. Ma dei presunti picchiatori di professione sì.

"E la ventina di episodi emersi sono solo la punta di un iceberg" racconta un investigatore. Non potrebbe essere altrimenti a meno di non leggere ulteriori conversazioni finite agli atti dell'inchiesta: "Cosa vuoi che dicano? - dice uno dei secondini indagati a un collega. Nemmeno li abbiamo portati in infermeria a farsi refertare. Vale di più la parola di un pedofilo o di un pubblico ufficiale?".

Dunque altre lesioni, altre torture sarebbero avvenute e se non sono contestate nella lunga lista dei capi di imputazione notificati agli indagati è solo perché non si è raggiunto il livello necessario della prova contro qualcuno. Negli atti allegati al fascicolo emergono le riunioni che gli agenti tenevano per concertare insieme al loro comandante le versioni "dolosamente false" a discolpa per disinnescare le segnalazioni giunte al direttore.

Il comandante li copriva. Quando il detenuto Diego Sivera segnalò le prime violenze, Giovanni Battista Alberotanza, comandante della polizia penitenziaria, avviò un'indagine interna. E andò a sentire il detenuto: "Lo sai - gli avrebbe detto in premessa - che se poi vieni smentito dagli agenti rischi di essere condannato per calunnia e dovrai stare in carcere ancora di più". Sivera ha colto il messaggio e ha rinunciato a raccontare.

Lo ha fatto in seguito alla garante dei detenuti di Torino Monica Gallo che ha girato le segnalazioni al comandante e in copia alla procura. Oggi spiega: "Era un atto doveroso ascoltare i detenuti. È il mio lavoro". Ma secondo le accuse sono in pochi ad avere fatto la propria parte. Non il direttore Domenico Minervini "che ha omesso di trasmettere le segnalazioni delle presunte violenze" e si sarebbe limitato a "spostare" periodicamente un ispettore indagato in altro settore.

Né il comandante degli agenti, difeso dal legale Antonio Genovese. Che viene informato dell'esistenza di un'indagine da due sindacalisti. "Comandante hai il telefono intercettato" gli dice uno dei due. Chi li ha informati? Al momento non si sa. Si conosce invece un'altra inchiesta che inguaia altri 12 agenti della penitenziaria del carcere. Secondo il pm Vito Destito portavano droga e telefonini all'interno dell'istituto per cederli ad alcuni detenuti. Sono già stati interrogati nei mesi scorsi a attendono l'avviso di conclusione indagini.