sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Lodovico Poletto

 

La Stampa, 23 luglio 2020

 

L'italiano è approssimativo. I fatti no. E i calci dati con le scarpe pesanti della divisa sulla ferita non ancora guarita dell'operazione all'addome fanno male anche soltanto a sentirne parlare. "Io non posso stare malato in carcere con dolori da morire, per colpa di una guardia di quel brigadiere". E se anche la frase è sconclusionata il senso è chiaro: non posso morire qui dentro per colpa di quei due agenti che mi hanno preso a botte.

La lettera è agli atti. L'ha scritta un uomo di origini marocchine, si chiama Mohamed Chikhi, ha 49 anni. Ha una condanna per omicidio e ancora tre anni da scontare. Ha una cella nel blocco B sezione decima. Il suo racconto, verbalizzato dai magistrati che hanno scoperchiato il bubbone delle violenze nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino; e anche se questa non è una storia di torture nel senso stretto del termine è una storia di violenza: gratuita. E di coperture.

Mohammed racconta che era stato operato da poco per un'ulcera all'addome. A metà aprile dello scorso anno un giorno si sente male. Gli altri detenuti lo soccorrono e chiamano le guardie. Il blocco B è un posto dove tra detenuti c'è molta socialità. Si gira tra le celle. Mohamed è circostanziato: "La guardia è tornata con una pastiglia di Buscopan presa in infermeria: "Mi ha detto muori pezzo di merda e me l'ha buttata per terra".

Mohamed reagisce. Dice: "Soltanto a parole". Il seguito è scontato. "Dopo un po' è arrivato il capo posto e mi ha detto che il brigadiere mi voleva vedere, e mi hanno portato da lui". Ed è qui, in una stanza al primo piano, che sarebbe avvenuto il pestaggio. "La guardia - racconta Mohamed - mi ha dato un calcio alla gamba e io sono caduto". E ancora: "Mentre ero a terra quello ha iniziato a darmi calci nella pancia e altre botte, proprio sulla ferita dell'operazione".

Uno, due, tre: quanti non sa dirlo. Ma tanti, è sicuro. In carcere le regole sono chiare: i detenuti sanno che uno sbaglio si paga. Ma sanno anche che i graduati della Polizia penitenziaria sono la garanzia che tutto avvenga senza problemi. Senza eccessi. Ecco, ciò che più lo indigna è il fatto che il brigadiere abbia lasciato fare: "Non ha alzato la mano per fermarlo, niente".

La storia è stata raccontata la prima volta dal detenuto all'avvocato Domenico Peila. Che conferma: "Dopo quel fatto sono accadute altre cose e il mio assistito si è visto negare la possibilità di accedere a permessi e benefici: un danno grave per lui".

Il seguito è più o meno questo. Dopo il pestaggio il detenuto chiede una visita perché sta male: e vengono riscontrate lesioni. E chiede anche di andare a rapporto: vuole presentare una denuncia. E qui la questione diventa complicata. Agli atti non viene messo nulla. Mohamed viene riportato in cella, la denuncia mai formalizzata. E lui si ritrova pestato un'altra volta: denunciare, far aprire fascicoli e inchieste per vicende interne non è una buona pratica per il mondo che si agita dietro le sbarre. Non è una buona pratica e si paga cara.

La storia di Mohamed è finita comunque negli atti dell'inchiesta torinese. Ci sono stati interrogatori e verifiche. Le carte sono sul tavolo del magistrato; l'interrogatorio è uno dei mille atti di questi mesi d'inchiesta. Mohamed è ancora detenuto nel padiglione B, sezione decima.

Non ha ottenuto i benefici in cui sperava: in galera basta un rapporto non favorevole per ritrovarsi nell'inferno. L'italiano è approssimativo, ma il concetto è chiaro: "Signor giudice se io non ho fatto del male a lui, perché lui ha fatto a me quelle cose con botte e calci? Tanti calci nella mia pancia, proprio dove mi avevano appena operato".