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di Damiano Aliprandi


Il Dubbio, 24 giugno 2020

 

Molti detenuti danno in escandescenza e sono messi in isolamento. Il caso di Antonio Cetraro, il detenuto con problemi psichiatrici suicidatosi 19 anni fa e di cui, solo oggi, l'Italia è stata condannata dalla Corte Europea a pagare il risarcimento, pone nuovamente il problema di quella moltitudine di suicidi nelle patrie galere senza che lo Stato abbia adottato misure per prevenire e quindi proteggere chi è sotto la sua custodia.

Parliamo dei suicidi dei detenuti con problemi psichici, di quelle morte annunciate perché i reclusi avevano già dimostrato di farla finita. Molti di loro, a causa delle loro turbe mentali, vanno in escandescenza, distruggono le celle e aggrediscono gli agenti. E vengono puniti, in cella di isolamento. Il problema dell'isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all'utilizzo delle cosiddette "celle lisce".

Si chiamano così perché dentro non c'è nulla: non ci sono brande né sanitari, né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all'interno di esse.

L'associazione Antigone, spesso, ha messo in luce queste problematiche. Per questo motivo, allo scopo di prevenire i suicidi in carcere, ha presentato l'anno scorso una proposta di legge che puntasse, tra le altre cose, a una riforma complessiva del regime dell'isolamento.

La prevenzione dei suicidi, secondo Antigone, richiede l'approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l'esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale.

Ma il problema della cura dei detenuti psichici resta un nodo irrisolto. Troppe poche le articolazioni per la salute mentale presenti nelle carceri (solo in 32 istituti su 191) e quelle poche che ci sono rischiano di riprodurre quella logica manicomiale del passato che ancora non è del tutto superata nonostante la riforma Basaglia e il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.

Però, senza nemmeno un'articolazione adibita per la cura, la questione diventa più difficile. Facciamo l'esempio del carcere di Modena, uno degli istituti protagonisti delle rivolte carcerarie di marzo e, soprattutto, dove ci sono scappati i morti. Prima della rivolta il 64,9% dei reclusi era straniero, il 35% tossicodipendente e ben il 55% in osservazione psichiatrica dove non c'era, e non c'è, un'articolazione per la salute mentale. Molto spesso, in mancanza di tale articolazione, i detenuti con disagi psichici vengono ricoverati in infermeria o messi in cella di isolamento.

Ciò non fa che peggiorare la situazione psichica del detenuto e, come purtroppo accade, portarlo alla morte. Non per ultimo c'è il discorso della presa a carico del detenuto da parte delle aziende sanitarie locali. Secondo il recente rapporto del comitato bioetico bisognerebbe rafforzare i servizi di salute mentale in carcere. Bisognerebbe fare in modo che i servizi funzionino come parte integrante di "forti" Dipartimenti di Salute Mentale, capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi al di fuori dal carcere e di collaborare a tal fine con la magistratura di sorveglianza.