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di Giovanni Fiandaca e Andrea Merlo


Il Foglio, 24 giugno 2020

 

Riformare o abolire l'abuso d'ufficio, cioè un reato un po' fantasmatico modificato già tre volte dai legislatori di turno con poco successo (nel 1990 e nel 1997 nella struttura, e nel 2012 solo per elevare la pena detentiva da tre a quattro anni)? La tentazione di riformare precedenti riforme, che come una coazione a ripetere rivela e comprova la grave e persistente nevrosi politica italiana, riemerge ciclicamente appunto anche rispetto a questo controverso reato. Ad esempio, nel maggio dello scorso anno col governo gialloverde ancora in carica, il pentastellato Di Maio respingeva moralmente sdegnato una proposta abolitrice del leader leghista con queste parole: "Quando un ministro come Salvini dice che vuole abolire l'abuso d'ufficio e ha un governatore indagato per quel reato (...) sta dando un pessimo segnale al paese".

Con l'attuale governo giallorosso, la sollecitazione a intervenire in materia proviene invece da una fonte ben più rassicurante e qualificata anche sotto l'aspetto tecnico: alludiamo al recente "annuncio" del presidente Conte di un possibile intervento sull'abuso d'ufficio, finalizzato - come egli ha spiegato in una lettera al Corriere della Sera - a ridurre il rischio penale gravante sui pubblici funzionari e a prevenirne, di conseguenza, quegli atteggiamenti di cautela autodifensiva che inibiscono il buon funzionamento della Pubblica amministrazione (si veda su questo giornale l'articolo di Antonucci del 28 maggio scorso).

Considerata la maggiore autorevolezza e credibilità di Conte, è bastato questo suo semplice annuncio a stimolare un dibattito tra esperti che va proseguendo su vari giornali. Se esiste una convinzione comune, questa risiede nella presa d'atto che l'attuale gestione giudiziaria dell'abuso d'ufficio risulta assai poco soddisfacente: per cui i costi individuali e sociali dell'applicazione (assai più tentata che portata a compimento!) di questa fattispecie criminosa sopravanzano, di gran lunga, i potenziali vantaggi in termini repressivi e preventivi.

Lo dicono le statistiche e lo conferma la voce dei magistrati che indagano o giudicano. In sintesi, si concorda sull'enorme sproporzione tra il numero delle indagini avviate dalle procure e le condanne effettive: ad esempio, secondo l'Istat, nel 2017 a fronte di oltre 6.500 procedimenti aperti sono state soltanto in numero di 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile (cfr. per ulteriori dati il Sole 24 Ore del 15 giugno 2020).

Nello spiegare questo impressionante divario, i pubblici ministeri sono soliti porre l'accento sulla difficoltà di prova, e ciò riguardo sia alla condotta abusiva sia all'elemento soggettivo (costituito in questo caso - per espressa previsione legislativa - dalla forma più intensa di volontà colpevole, cioè il dolo cosiddetto intenzionale). Rileva, non a caso, il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo: "L'atto del pubblico ufficiale può anche essere illegittimo ma senza quel 'dolo intenzionalè di arrecare un vantaggio a un terzo l'accusa crolla"; e, come lo stesso Ielo nota, non basta riscontrare in un atto una qualsiasi forma di illegittimità per diagnosticare un abuso punibile (Intervista al Sole 24 Ore, 15 maggio 2020).

Ed è proprio questo il punto nodale sul piano del cosiddetto elemento oggettivo del reato di abuso: è sufficiente la più piccola illegittimità amministrativa anche di natura procedimentale, o basta il noto vizio dell'eccesso di potere a integrare una condotta rilevante anche penalmente?

La tormentata storia del reato di abuso d'ufficio è stata per lungo tempo attraversata da interrogativi e dubbi di questo tipo, con risposte tutt'altro che certe e univoche da parte degli interpreti dottrinali e giurisprudenziali. Fino a quando la riforma del 1997 ha tentato di risolvere il problema in un modo che sembrava tagliare la testa al toro: precisando cioè che le modalità di realizzazione di un abuso punibile devono consistere nella "violazione di norme di legge o di regolamento" (con questa puntualizzazione il legislatore dell'epoca intendeva circoscrivere la discrezionalità valutativa della magistratura, escludendo che potesse costituire reato un esercizio pur distorto del potere amministrativo che non derivasse, però, dalla inosservanza di una specifica disposizione legislativa o regolamentare).

Quale ne fu la ricaduta sul piano giudiziario? In un primo tempo, la giurisprudenza obbedì al legislatore, applicando l'abuso nei limiti voluti da quest'ultimo. Gradualmente, l'obbedienza andò regredendo per effetto di progressive forzature ermeneutiche della fattispecie, e questo sino ad arrivare a una sua sostanziale riscrittura grazie a un ricercato aggancio alla Costituzione. Cioè la Cassazione, mossa dalla preoccupazione di lasciare impunite forme di esercizio a suo giudizio arbitrarie della discrezionalità amministrativa, ha finito col restaurare e aggiornare una tesi - invero preesistente rispetto alla riforma del 1997 - riassumibile così: l'abuso punibile può anche derivare da un contrasto tra la condotta tenuta dal pubblico funzionario e i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost., così come interpretati beninteso dagli stessi giudici nei casi concreti, e ciò nonostante la mancanza - appunto - di norme esplicite e specifiche che obblighino ad agire nel senso ritenuto corretto (una dettagliata ricostruzione di questo percorso giurisprudenziale, evolutivo o involutivo a seconda dei punti di vista, è rinvenibile nel recente libro di A. Merlo, "L'abuso di ufficio tra legge e giudice", Giappichelli, 2019).

Ora, tenendo conto della ricorrente tendenza della magistratura a dilatare per via interpretativa i limiti testuali delle norme prodotte dal potere politico-legislativo, una ulteriore modifica del testo dell'art. 323 del codice parrebbe sconsigliabile: nulla può infatti garantire in anticipo che una nuova riscrittura del reato di abuso non venga tradita da future letture giurisprudenziali a carattere manipolativo.

Meglio abolirlo del tutto, allora? È questa la strada suggerita da qualche autorevole esperto, come ad esempio l'ex procuratore di Roma Pignatone: il quale propone però di sostituire l'abuso d'ufficio con figure criminose più specifiche, volte a incriminare condotte illecite in particolare in materia di appalti, o a tutela della concorrenza, che in atto vengono riversate nel genericissimo contenitore del reato di abuso a causa della mancanza di più puntuali figure criminose (cfr. la Stampa del 14 giugno). Pur trattandosi di una proposta che ha un senso sotto l'aspetto tecnico, un'obiezione di fondo rimane questa: perché contrastare le condotte illecite con il continuo incremento delle fattispecie di reato, che finisce con l'aggravare l'obesità già gravissima della legislazione penale, mentre si dovrebbero più opportunamente incrementare le forme di controllo e di sanzionamento extra penali?

Ipotizzando l'abolizione secca dell'abuso, incombe tuttavia una preoccupazione che si riconnette, al di là dei risvolti più strettamente tecnico-giuridici, agli orientamenti politico-culturali di fondo di una parte almeno della magistratura italiana. Se cioè persistesse anche in futuro (come sembra, allo stato, prevedibile) la tendenza a esercitare il cosiddetto controllo di legalità sull'esercizio dei pubblici poteri in forme intense e pervasive, diventerebbe concreto un rischio: vale a dire, che il vuoto repressivo lasciato dall'abolito reato di abuso venga riempito attraverso una reinterpretazione in chiave estensiva di fattispecie ben più gravi, come ad esempio il reato di corruzione (cfr. l'articolo di Fiandaca pubblicato su queste colonne il 9 giugno 2020 a proposito, ad esempio, della controvertibile ipotizzabilità del reato di corruzione nel caso della spartizione concordata dei giudizi di idoneità a professore universitario).

In effetti, come ha ben rilevato anche Tullio Padovani (cfr. il Riformista del 30 maggio 2020), dietro la dibattuta vicenda dell'abuso d'ufficio non ci sono solo questioni interpretative derivanti dalla formulazione legislativa del reato: c'è il problema forse più decisivo del contingente modo d'atteggiarsi dei rapporti tra magistratura (specie d'accusa) e soggetti titolari di poteri politico-amministrativi; un problema dunque, più che tecnico, di cultura e politica della giurisdizione!

Così stando le cose, se mutasse la cultura di fondo della maggioranza dei pubblici ministeri e dei giudici, potremmo forse anche lasciare l'abuso d'ufficio nella veste normativa attuale: potrebbe essere sufficiente non coltivare le notizie di reato più labili e incerte, limitare le indagini ai casi di condotta illegittima evidente sin dall'inizio e, soprattutto, recuperare quell'orientamento interpretativo - manifestatosi subito dopo la riforma del 1997 e poi abbandonato - che, in conformità alle indicazioni del legislatore, circoscriveva la punibilità ai soli casi in cui l'abuso nascesse dalla inosservanza di precise disposizioni legislative o regolamentari disciplinanti l'assetto sostanziale degli interessi in gioco.

Ma, verosimilmente, pretendere inversioni di tendenza motivate da sopravvenuto - per dir così - ravvedimento ermeneutico, a vantaggio di un più equilibrato rapporto tra i poteri e di un più efficace funzionamento della pubblica amministrazione, è a tutt'oggi illusorio: equivarrebbe a rinunciare all'uso dello strumento penale per scopi di moralizzazione collettiva. Siamo pronti per questo recupero di democrazia liberale?