sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesco Battistini


Corriere della Sera, 24 giugno 2020

 

Parigi contesta il ruolo di Ankara a Tripoli: "Così la Nato è morta". La Turchia arresta "spie" dei francesi. "Sirianizzazione". Brutta la parola, giusta l'idea. L'aveva già usata un mese fa il ministro degli Esteri francese, spaventato dalla deriva. La ripetono in queste ore un po' tutti: sì, la Libia sta diventando sempre più uno scatolone-regalo per due, la Turchia e la Russia, le stesse che comandano in Siria e che qui armano l'una il governo tripolino di Fayez al-Sarraj, l'altra il generale cirenaico Khalifa Haftar. La guerra civile è a una svolta. E dallo scorso inverno, da quando Erdogan ha portato a Tripoli i miliziani siriani, i rapporti di forza si sono rovesciati: Sarraj stravince, Haftar si ritira, Ankara gode.

Può durare? Il primo a cui sono saltati i nervi è Emmanuel Macron, sostenitore di Haftar, già furioso perché la settimana scorsa le sue fregate che pattugliano il Mediterraneo s'erano imbattute in un cargo turco pieno d'armi, e s'era sfiorata la battaglia navale. Oltre che una crisi diplomatica: "La Turchia sta giocando una partita pericolosa", dice il presidente francese. "Il gioco pericoloso" lo fate voi, la risposta di Erdogan: "Stando col golpista Haftar e creando il caos". Per essere più chiaro, il Sultano ha fatto arrestare un'ex guardia del consolato francese a Istanbul e tre turchi, tutti accusati d'essere spie a libro paga di Parigi dentro il mondo degli islamisti.

C'era una volta la Nato. La stessa che nove anni fa cacciava Gheddafi, a suon di bombardieri francesi, e oggi si ritrova due Paesi membri l'un contro l'altro armato. "È la morte cerebrale dell'Alleanza atlantica", riconosce l'Eliseo: "Ma bisogna dire ai turchi: è ora di fermarsi. Non tollereremo il vostro ruolo. Avete raggiunto l'obbiettivo di capovolgere la situazione militare: basta così".

Il concetto è stato ripetuto da Macron in una telefonata a Donald Trump, uno che finora si preoccupava della Libia solo per il petrolio o per il terrorismo, e invece lunedì ha mandato il capo del Pentagono in Africa, Townsend, a negoziare una tregua militare. È in parte anche la posizione dell'Italia, che gioca sui due tavoli: Luigi Di Maio è stato in Turchia, ora va a Tripoli e tiene aperto il canale Haftar, perché la crisi "riguarda la nostra sicurezza nazionale" e "non possiamo permettere nessuna partizione" (leggasi: sirianizzazione).

L'ultima cosa di cui ha bisogno la Libia sono nuovi interventi dall'estero, ha detto ieri mattina un portavoce Onu. E invece troppi si stanno agitando: con la Francia, al fianco di Haftar, ecco schierarsi l'Egitto. "C'è una linea rossa" che i turchi non possono superare, avverte il presidente Al Sisi: questa linea va da Sirte, la simbolica città natale di Gheddafi già liberata dall'Isis, e arriva alla base aerea d'Al Jufra, 250 km a sud, dove i russi hanno piazzato i Mig-29, i Su-24 e le migliaia di mercenari dell'esercito privato Wagner, tutti in appoggio della Cirenaica.

Se Sirte cadrà, come sembra, la marcia dei turchi verso Est potrebbe arrivare fino a Bengasi e ai grandi pozzi petroliferi di Ras Lanuf. "Inaccettabile": parlando ai suoi soldati, Al Sisi non ha escluso un intervento armato in nome della sicurezza nazionale - "tenetevi pronti" - e ha ricevuto l'applauso di sauditi, emiratini, della Lega araba tutta, perché "l'Egitto ha il diritto di difendere i suoi confini".

Di mezzo ci sono naturalmente le vecchie ruggini con Erdogan, che nel 2013 finanziava i Fratelli musulmani al Cairo come ora dà soldi agli islamici di Tripoli. Ma c'è soprattutto l'alleanza francese ed egiziana con Putin. Quello che dice di volere un cessate il fuoco e sul fuoco, finora, ha spesso soffiato. Come in Siria.