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Avvenire, 23 maggio 2020


Nell'autobiografia dell'ex terrorista di Prima Linea la difficile riemersione dagli Anni di piombo attraverso alcuni significativi incontri durante la detenzione. Benedetto fu il carcere, per Maurice Bignami. Fra i fondatori di Prima Linea, seconda organizzazione terroristica degli anni di piombo. Prima, anzi, per numero di militanti, ma di durata più breve, avendo trovato presto una via d'uscita comune, tramite la dissociazione maturata in carcere.

Il suo "Addio Rivoluzione: Requiem per gli anni Settanta" (Rubbettino, pagine 406, euro 19) è il racconto di una vita che è stata tante vite. Dall'infanzia a Parigi, con un padre (Torquato) capo partigiano, finito nei guai (assolto anni dopo) in una terra, la "rossa" Emilia, in cui si sono giocati anche i "supplementari" della Guerra di liberazione.

Scappato prima in Cecoslovacchia, per poi stabilirsi in Francia. "Concepito da una parte della cortina di ferro e scodellato nell'altra. Insomma, una famiglia normale", dice con graffiante autoironia Bignami. Una vita quasi da predestinato che lo vede rientrare a Bologna prima che arrivi il Sessantotto. Gli anni giovanili vissuti "nella fantastica (e pericolosissima) condizione di chi non è più sottoposto alle vecchie regole e non è ancora assoggettato a quelle nuove".

Potere operaio, Autonomia, i primi scontri e il primo "assaggio" di carcere nel tumultuoso 1977: "Mi arrestarono a Milano in casa di Toni Negri, dove avevo messo a punto il menabò di un numero speciale della rivista "Rosso" sulle giornate di marzo a Bologna", in cui fu ucciso negli scontri con gli agenti lo studente di Lotta Continua Francesco Lorusso.

Poi il sequestro Moro, spartiacque anche per Prima linea, gli omicidi pianificati ad accelerare la strada verso una rivoluzione che non arrivava. "Sapevamo che il prezzo sarebbe stato altissimo. E non era il carcere, forse nemmeno la morte la parte peggiore della faccenda. Era, comunque la mettessimo, il ritrovarsi con l'umano a brandelli e farci l'abitudine".

Ma all'orrore non ci si abitua: "Si può diventare ex terroristi, ma mai ex assassini", ha detto in più occasioni Bignami. E forse il libro nasce anche per questo, per il bisogno insopprimibile di far pace con sé stessi, oltre che col mondo. "Nel febbraio 1981 fui arrestato anch'io. Finalmente. Non ne potevo più", ricorda. Catturato a Torino durante una rapina aveva con sé delle granate, ma scelse di non farle esplodere.

Così iniziò la lenta risalita: "Non che il carcere non fosse la fogna che conosciamo", ma furono anni di riflessione interiore e di incontri. Tanti sacerdoti. Don Salvatore Bussu, cappellano di Badu e Carros (Nuoro) che col famoso sciopero della messa di Natale aprì la strada al ravvedimento di Alberto Franceschini, Franco Bonisoli e Roberto Ognibene, che avevano iniziato lo sciopero della fame, e di tanti altri.

Ma è padre Ruggero Cipolla, novello Fra Cristoforo, a rompere il ghiaccio del suo cuore, con la complicità di Teresa che, con i buoni uffici del sacerdote, divenne presto sua moglie nonostante le sbarre a dividerli. E poi don Mario (Bignami lo chiama "Marione", trascurando il cognome) padre Adolfo Bachelet (fratello di Vittorio, ucciso dalle Br) che divenne, con suor Teresilla Barillà, zelante ricercatore nelle carceri italiane di ex terroristi da riportare sulla retta via. Infine don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana, che gli offrì la prima via d'uscita.

Ma il vero compagno d'avventura di quegli anni fu un uomo che con la Chiesa non c'entrava nulla, il radicale Sergio D'Elia, che con lui condusse tutto il lavoro a Rebibbia che portò prima a consegnare le armi al cardinale Martini e poi alla "resa" vera e propria dell'organizzazione in carcere, con un documento ufficiale letto al congresso del Partito Radicale del marzo 1987.

Documento che aprì le porte, in un virtuoso "do ut des", alla legge della dissociazione e alla "Gozzini" che permise di uscire dal carcere per lavorare. "Con Maurice ci ha unito una parola: amore", dice D'Elia a fotografare il passaggio che li accomunò, dal vortice dell'ideologia alla persona.

Bignami ha avuto così un'altra possibilità, e nella sua famiglia è entrato anche Amin, il figlio della tata che, quando Maurice era ancora ancora in semilibertà, ha aiutato sua moglie Teresa ad accudire i suoi piccoli, venuto in Italia per sottrarlo alla guerra in atto a Mogadiscio. Ma c'è un altro incontro che ha segnato, più di recente la vita di Bignami.

Giuseppe Fidelibus, docente universitario abruzzese riconobbe Maurice nella foto a corredo di un'intervista in cui raccontava la sua conversione al mensile di CI "Tracce". Non credette ai suoi occhi, era proprio quel detenuto per il quale aveva pregato quando era carabiniere di leva a Firenze, nel 1982, durante un processo.

Quella volta, vedendolo andar via pensò che non lo avrebbe più rivisto. Invece i due si sono rincontrati dopo trent'anni e Fidelibus firma la post fazione del libro: "Grazie Maurice, ora mio caro fratellone", sono le ultime parole del libro. Un carcere che ricorda un po' il letame dal quale "nascono i fiori" di Fabrizio De André. "Chissà, forse questa segregazione da cui stiamo uscendo poco a poco, a saperla valorizzare, ci consentirà finalmente di concepire un'idea condivisa di futuro per il nostro Paese".