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di Adolfo Ferraro*


Ristretti Orizzonti, 1 maggio 2020

 

Se è veritiera la comunicazione del Dap ripresa dal Garante Mauro Palma il 26 aprile 2020 che i detenuti che risultano al momento positivi al Coronavirus sono 138 su tutto il territorio nazionale (0,2% della popolazione detenuta), 13 dei quali ricoverati in ospedale, e sono 230 invece i soggetti positivi al tampone fra le quasi 38mila unità di Polizia Penitenziaria (di cui sedici ricoverati e tutti dispensati dal servizio) significa che l'infezione da coronavirus in carcere non ci è entrata

o, in proporzione alla sua diffusione all'esterno, ha mantenuto un inatteso ridotto standard di crescita e di presenza controllato e controllabile. Ovviamente non può che essere una buona notizia. Che le carceri fossero una polveriera lo sapevano già tutti, anche prima della pandemia. E il virus improvviso, così come nella comunità esterna, ha spinto verso soluzioni indirizzate a limitare il danno, vista la assoluta comune mancanza di conoscenza della dinamica di crescita e di contagio dell'infezione. Nel carcere ovviamente il distacco sociale, uno dei metodi per limitare il danno, è stato solo quello con i parenti all'esterno, essendo impraticabile in una struttura che di per sé non rispetta le distanze minime anche senza il sovraffollamento. In questo senso le preoccupazioni dei detenuti e dei loro familiari sono più che comprensibili anche se meno accettabili sono stati i disordini nelle carceri del mese scorso, che hanno dato una idea di un disegno fondamentalmente eversivo e di una prova di forza di cui non c'era assolutamente bisogno, finalizzato ad esasperare gli animi e produrre reazioni sempre più violente. Assolutamente non giustificabili da qualunque parte provengano, come i presunti pestaggi dei giorni scorsi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

E certamente un momento di emergenza produce reazioni di emergenza per cui è evidente che, per limitare il danno, sfoltire la popolazione carceraria è stata ed è un obiettivo e una richiesta praticabile. Sempre secondo i dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, le presenze sono passate da 61.230 del 29 febbraio ai 53.658 del 26 aprile. Un calo di oltre ottomila detenuti, che sono usciti dagli istituti di pena nel giro di un mese, da quando è scoppiata la crisi sanitaria. Ed altri nei giorni successivi hanno usufruito di benefici che hanno parzialmente snellito la popolazione carceraria, che comunque rimane ancora numerosa e potenzialmente contagiabile.

Una osservazione però dovrebbero farci riflettere: i ridotti numeri dei detenuti positivi sono anche di molto inferiori in rapporto e proporzione al numero complessivo dei contagi della popolazione libera. Significa evidentemente che l'infezione nel carcere si è propagata con modalità diverse e più controllate di quelle avvenute nel mondo libero.

Il paradosso, finora attuale, è che a due mesi dall'inizio della pandemia il tanto temuto contagio nelle carceri, ritenute (e comunque ancora da ritenere) potenzialmente esplosive, non si è venuto a verificare, grazie a Dio, forse proprio per l'isolamento che la detenzione impone, e non solo per la riduzione della popolazione detenuta. Queste considerazioni non hanno naturalmente interrotto le richieste finalizzate allo sfoltimento ulteriore degli istituti di pena.

La sensazione che le richieste dell'esecuzione e delle modalità dello sfollamento produce è però quella, magari errata nella sua sostanza, di volere sfruttare un momento di emergenza per ottenere benefici che in altri momenti non si sarebbero potuti ottenere. E questo amplificando le pur concrete esigenze di salute e prevenzione e alzando i toni del pericolo, producendo infine una tensione che si alimenta da sola.

I risultati sono quelli della sospensione della detenzione (almeno in carcere) di molti detenuti comuni, ma anche di soggetti vicini alle attività criminali, organizzate o meno, come Francesco Bonura o Pasquale Zagaria, e altri ancora, con tutte le polemiche, poco chiare in verità, tra il Dap, i Magistrati di sorveglianza, la Direzione Antimafia e altri ancora.

Questo rischia di spostare tutto il senso del garantismo verso l'aspetto manipolatorio dell'emergenza, che non propone strade definitive e stabili, come quella di una seria riflessione sulle pene e sul loro significato, che dovrebbe essere un lavoro costante sul carcere e i suoi ospiti. Ma piuttosto un "libera tutti" poco accettabile dalla opinione pubblica e che non consentirà che delle variazioni temporanee, senza un preciso progetto di organizzazione giudiziaria e di prevenzione futura.

 

*Psichiatra, Operatore penitenziario volontario