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di Luca Fano


Il Giornale, 22 dicembre 2019

 

Il legale dell'imputato: "Non avevo parlato, non so cosa sia accaduto". Incredibilmente, la sentenza è valida. Anche se il giudice l'ha strappata dopo averla letta, rendendosi conto di averla fatta grossa e anzi enorme; e anche se lui e i suoi colleghi si sono precipitati a chiedere di essere sollevati dal processo. Ma il processo è finito.

E adesso il giudice Roberto Amerio, presidente di sezione del tribunale di Asti, e i due magistrati che gli stavano accanto, dovranno scrivere le motivazioni più difficili della loro carriera: spiegando come siano riusciti a dichiarare un imputato colpevole prima ancora di ascoltare la parola del suo difensore; come abbiano potuto infliggere undici anni di carcere a un uomo dimenticandosi che il suo avvocato doveva ancora pronunciare l'atto più importante di tutto il processo, l'arringa difensiva. Non era un processo da poco.

Davanti a sé i magistrati avevano una vicenda da brividi: un padre e una madre accusati di stupro ai danni della loro figlia. Entrambi i coniugi si sono sempre, ostinatamente, proclamati innocenti, respingendo tutte le accuse. "Il mio assistito - racconta l'avvocato dell'uomo - ha chiesto per due volte di essere interrogato dal pubblico ministero durante le indagini preliminari, e durante il processo sono emersi una lunga serie di elementi a sostegno della sua versione. È una vicenda quantomeno controversa, e io mi preparavo a chiedere l'assoluzione del mio assistito".

Il pubblico ministero, la parte civile e la difesa della madre avevano già parlato nell'udienza precedente. L'arringa del legale del padre, l'imputato principale, si annunciava lunga: per questo giudici e avvocati avevano concordato di rinviare l'udienza al 18 dicembre, ore 12. E il 18 accade l'inverosimile: pochi minuti dopo mezzogiorno i giudici entrano in aula e anziché sedersi e dare la parola al legale dell'imputato, restano in piedi. Amerio ha ìn mano un foglio e inizia a leggerlo: "In nome del popolo italiano, visti gli articoli...".

I presenti impiegano qualche attimo a rendersi conto di quanto sta accadendo. Ma non ci sono dubbi: il giudice sta leggendo la sentenza. Ed è una batosta: quattro anni alla madre, undici anni al padre. Appena Amerio finisce di parlare e fa per andarsene, l'avvocato lo ferma. "Io dovevo ancora parlare". I giudici si bloccano, si guardano tra loro, poi il presidente cerca di mettere una toppa peggiore del buco: strappa la sentenza e invita l'avvocato a fare la sua arringa, come se nulla fosse. Come se non ci fossero registrazioni, cancellieri ed avvocati a dimostrare che la sentenza era già stata emessa.

"Non so cosa sia accaduto dietro le quinte - dice l'avvocato - se si fossero riuniti in camera di consiglio prima dell'udienza per decidere, o se avessero deciso già dopo l'udienza precedente. Sono entrati in aula uscendo dalla camera di consiglio ma non posso sapere da quanto fossero dentro". Una sola consolazione: l'imputato non era in aula a vedere con i suoi occhi come funziona la giustizia in Italia. Una giustizia dove dei giudici tengono così conto delle parole dei difensori da non ricordarsi se le hanno già sentite.