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di Antonella Mascali

 

Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019

 

Non ci può essere un pregiudizio "assoluto" nei confronti di un detenuto, anche se condannato per mafia o per altro reato ostativo ai permessi premio, in mancanza di collaborazione con la giustizia. È il principio che ha spinto la Corte, sia pure spaccata quasi in due, a decidere a ottobre di dichiarare incostituzionale il divieto previsto dall'articolo 4bis, comma 1 dell'ordinamento penitenziario.

Ieri, sono state depositate le motivazioni a firma del relatore Nicolò Zanon. "Sono sicuro che le forze politiche - ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - saranno compatte nell'affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza".

E proprio per studiare la sentenza e capire che interventi legislativi siano necessari, ieri a tarda sera, nonostante la fibrillazione per la riforma della prescrizione, c'è stata una prima riunione del Guardasigilli con il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra e i parlamentari del M5s che fanno parte sia dell'Antimafia che della commissione Giustizia.

Secondo quanto si legge nelle motivazione della Corte, "è ragionevole" che un detenuto sia premiato nel caso collabori con la giustizia ma "non può essere 'punito' se non collabora", non gli si possono negare a priori i benefici, concessi a tutti gli altri detenuti. Cioè, secondo la Corte, non può esserci una presunzione di pericolosità "assoluta" in caso di mancata collaborazione con la giustizia. La presunzione di pericolosità, pertanto, deve diventare "relativa" e va valutata caso per caso dal magistrato di Sorveglianza.

Concetti espressi sulla base dei principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione). Se il magistrato competente ha degli elementi tali da poter escludere che il detenuto mafioso abbia ancora legami con l'associazione criminale o li possa ripristinare durante un permesso premio, allora può concedere il beneficio richiesto anche in mancanza di collaborazione con la giustizia.

Quindi, non si deve dimostrare la pericolosità, che per i mafiosi si dà per scontata, ma da oggi relativamente, si deve dimostrare l'assenza di collegamenti criminali. Nelle motivazioni della Corte vengono indicate delle condizioni per questo cambio di rotta che ha il plauso degli avvocati e preoccupa tanti magistrati da anni in prima fila nella lotta alle mafie, consapevoli della pericolosa specificità del fenomeno mafioso italiano.

Per il permesso premio non basta "la buona condotta" del detenuto o "la semplice dichiarazione di dissociazione" o "la mera partecipazione al percorso rieducativo". Ci devono essere elementi "capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale".

Che ciò accada è possibile, secondo la Corte, perché la lunga detenzione può portare a un cambiamento non solo del detenuto ma anche del contesto esterno. Ma per valutare questi eventuali cambiamenti in positivo, la Corte si spinge a dire quali saranno le carte sul tavolo del magistrato di Sorveglianza per poter prendere la sua decisione: "Le relazioni dell'Autorità penitenziaria" e "le dettagliate informazioni acquisite dal competente Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica".

Anche sul detenuto "che richiede il beneficio, grava l'onere di fare specifica allegazione", cioè di portare degli elementi a favore delle tesi del mancato collegamento con la criminalità. Inoltre, la Consulta ricorda che tutti i benefici penitenziari "non possono essere concessi (ferma restando l'autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunica l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata".