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di Francesco Puleio*

 

catania.livesicilia.it, 5 dicembre 2019

 

Quando da ragazzo giocavo, in verità molto male, al calcio, l'allenatore ci spiegava che, per capire quale giocatore avversario avrebbe tirato la punizione, non dovevamo prestare attenzione alle finte e alle manovre di disturbo degli avversari, ma osservare chi prendeva il pallone in mano e lo sistemava sul punto di battuta. Guardiamo ai fatti, non alle parole, ci diceva: offrendoci un insegnamento che non ho più dimenticato.

Su questi presupposti, mi chiedo oggi: può un detenuto prendere pubblicamente le distanze dal proprio passato criminale, riconoscere le sentenze (del resto, ormai passate in giudicato) che lo hanno condannato, magari all'ergastolo, ed invitare i giovani a non seguire il suo esempio? Certamente.

Anzi, è umanamente auspicabile che ciò avvenga, e nel maggior numero di casi possibile. L'idea della pena come strumento di rieducazione del condannato è uno dei principi fondanti della nostra Costituzione, e così qualunque manifestazione di ravvedimento, qualunque modifica del proprio percorso criminale, da chiunque provenga, deve essere consentita dalla legge ed accettata dalla coscienza comune. Lo Stato non deve mai togliere ad un uomo la speranza di poter cambiare.

Da questa lecita e desiderabile revisione di un vissuto delittuoso devono poi discendere conseguenze sul piano giudiziario? Qui il discorso - da piano e universalmente condiviso -- comincia a farsi sdrucciolevole. Per evitare capitomboli, cominciamo col porre la fondamentale distinzione tra chi collabora e chi semplicemente si dissocia.

Chi collabora con la giustizia, accusando sé stesso ed i propri complici dei delitti commessi, stipula un patto con lo Stato, che consente ai criminali di fruire di benefici altrimenti (sinora) impossibili da conseguire, ed alla Giustizia di smantellare intere organizzazioni, accertare fatti altrimenti destinati a rimanere sepolti e soprattutto impedire ulteriori delitti. Il collaboratore rompe, spesso traumaticamente, con il proprio passato, con la famiglia e l'ambiente di origine, si pone al di fuori del gruppo criminale di appartenenza e per ciò ottiene giovamenti premiali.

Chi scrive generiche lettere di distacco, o ammette nelle aule di giustizia solo i propri delitti, senza chiamare in causa terze persone, né alzare il velo sugli affari del clan, non offre alcun contributo all'accertamento della verità.

È un atteggiamento ambiguo, che può implicare una seppur indeterminata volontà di recidere i legami con l'ambiente delinquenziale, ma può celare talora una strumentalizzazione, dissimulatrice del persistere di una sottostante adesione al clan.

Perché allora, senza rischiare un sostanziale scollamento dalla realtà, concedere sconti di pena (soprattutto nei processi per omicidio), permessi carcerari, ovvero, con riferimento ai detenuti di rango apicale, elidere il regime di massima sicurezza previsto dall'art. 41bis dell'ordinamento penitenziario, a fronte di una pubblica presa di distanza dall'organizzazione, inutile in quanto escludente ogni forma di concreto contributo, che non consente di acquisire elementi tali da escludere l'attualità della partecipazione criminale e il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizza, e che rischia, anzi, di contribuire a rafforzare i clan?

Poco senso ha invocare l'estensione ai dissenzienti di mafia dei meccanismi premiali già previsti dalla legge per i terroristi dissociati, facendone difetto i presupposti storici, ideologici e fattuali. Il fenomeno della dissociazione nacque in una fase in cui l'emergenza terrorista era stata sostanzialmente sconfitta sul piano militare (e proprio per la collaborazione con la giustizia) e si propose come una svolta politica, in cui il dissociato dichiarava la propria abiura dalla violenza politica e dal terrorismo in pubbliche sedi processuali.

La verifica dell'ottenimento delle riduzioni di pena (peraltro in alcuni casi si trattò di rimodulare le condanne, escludendo le aggravanti introdotte dalle leggi speciali) divise per ordine di reati, spettava ai Tribunali che valutavano la possibilità di ottenimento delle stesse anche e soprattutto in base ai comportanti processuali tenuti dai singoli imputati: la condizione relativa all'ammissione delle proprie responsabilità penali ne fu in gran parte il meccanismo di verifica. Ma il dissociato operava una sorta di revisione autocritica che concorreva alla delegittimazione dei presupposti ideologici, dell'impianto concettuale e motivazionale ed ad una sorta di sradicamento dei meccanismi di riproduzione di tali fenomeni: fattori questi non riproponibili nell'universo della criminalità organizzata.

È la natura stessa del patto connesso alla realizzazione del reato di associazione mafiosa (che riguarda racket, corruzione, omicidi, droga, e chi più ne ha più ne metta) a rendere inconcepibile il meccanismo della dissociazione in materia: la mafia si fa per arricchire, diceva il pentito Antonino Giuffré, non per cambiare il mondo, ci sia consentito aggiungere. Come ci si può dissociare dalla corruzione o dal riciclaggio di denaro od ammettere un omicidio eccellente senza fare riferimento a complici o interlocutori esterni al clan?

Concludiamo, dunque. Non possono sussistere presunzioni assolute di colpevolezza, nemmeno nei confronti dei detenuti mafiosi, ed occorre perseguire ed incoraggiare il ravvedimento di tutti i condannati, siano essi capimafia o semplici gregari. Al contempo, riconoscere benefici o sconti di pena a chi si dissocia senza collaborare potrebbe implicare il rischio di aprire la strada ad una forma di negoziato che abbandona le falangi militari dei clan per salvaguardarne i vertici e i loro interessi nella corruzione e nel riciclaggio.

*Procuratore aggiunto di Catania