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di Davide Mosso*


Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2019

 

La situazione delle persone detenute nei carceri italiani, ed in quello di Torino in particolare, si fa ogni giorno più seria e preoccupante. Tutto ciò peraltro in un clima di frastornante silenzio. Di disinteresse quando non di grave corresponsabilità. Il 9 luglio scorso gli avvocati penalisti italiani indicono un giorno di astensione dalle udienze per sensibilizzare al tema l'opinione pubblica. Ma soprattutto per sollecitare il ministro Bonafede e gli operatori di giustizia a porre prontamente rimedio alla "disastrosa ed esplosiva condizione carceraria del Paese".

Quello stesso giorno, intervenendo alla manifestazione nazionale organizzata dall'Unione Camere penali e dal suo Osservatorio carcere a Napoli, il Procuratore della Repubblica di quella città, Giovanni Melillo, ricordava che "chi non ascolta le voci di chi è in carcere si macchia di gravi responsabilità". Ed aggiungeva altresì: "Credo che anche la magistratura debba assumere un più chiaro ruolo da protagonista nella tutela dei diritti all'interno del circuito penitenziario".

Cos'è cambiato nel frattempo? Ad esempio che se il 30 giugno 2019 nei carceri italiani erano detenute 60.522 persone a fronte di una capienza massima indicata dal ministero in 50.472 posti (laddove peraltro quelli davvero fruibili erano e sono intorno ai 47.000), il 31 ottobre scorso le persone in carcere erano diventate 60.985. Di cui in custodia cautelare, dunque presunte innocenti, un terzo circa.

Venendo poi al carcere di Torino, i numeri, e quindi le condizioni di vita, si sono fatte particolarmente drammatiche. Visto che il 30 giugno vi erano rinchiuse 1.398 persone. Divenute il 31 ottobre 1.533. Sebbene vi sia posto per 1.061 soltanto. Come se in un'auto omologata per quattro si viaggiasse in sei. Per un viaggio lungo talvolta mesi. Magari anche anni.

E tralasciamo ogni discorso sulla scelta dei compagni. Non possiamo invece non ricordare che nel 2013, in una sentenza della Corte Costituzionale, l'attuale presidente Giorgio Lattanzi ebbe a dire che il sovraffollamento "può tradursi per dimensioni e caratteristiche in trattamento disumano e degradante".

Forse non sarà stato solo questo a determinare, proprio nel nostro carcere, due persone nelle ultime settimane, l'ultima la sera di domenica, a porre purtroppo fine alla propria vita fisica appendendola nel buio della propria cella. Né il fatto di non aver probabilmente incontrato ovvero visto solo di sfuggita il proprio educatore. Dal momento che ve ne sono quattordici per tutto l'istituto.

Certo è però che, per i numeri ma non soltanto, siamo lontanissimi dall'idea dei Costituenti, un terzo dei quali aveva fatto durante il fascismo l'esperienza della reclusione, del carcere come luogo in cui si conosce la pena della limitazione della libertà personale in un tempo però impegnato quanto più possibile nella prospettiva del pieno reinserimento sociale.

Si parla tanto di certezza della pena. Mi pare si ignori che è già pressoché certo che la pena in carcere si svolgerà in condizioni che non rispettano il dettato costituzionale e le norme in materia di ordinamento penitenziario. E che dunque non sono legali. Non sono giuste. Se ci fosse poi chi ritiene che vada bene così, consideri che noi priviamo una persona della libertà perché non ha rispettato una legge dello Stato.

Questo stesso Stato, in cui vive e che lo rappresenta, non dovrebbe allora a sua volta essere rispettoso delle sue leggi? Visto poi che lo Stato siamo noi, credo che ciascuno sia corresponsabile a vario titolo di quanto è accaduto ed accade. Un Paese si misura dalla civiltà delle sue scuole. Dei suoi ospedali. Dei suoi istituti penitenziari.

 

*Componente dell'Osservatorio carcere Unione Camere penali italiane