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di Amalia De Simone


Corriere della Sera, 13 novembre 2019

 

Armi in mano prima dei dieci anni, visite ai macelli a vedere squartare gli animali, disprezzo per le forze dell'ordine: la testimonianza di un collaboratore di giustizia. Ad oggi il tribunale dei minori di Reggio Calabria ha adottato 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie nei confronti di 70 minorenni.

Aveva meno di dieci anni quando gli misero in mano una pistola. Se lo ricorda perché le dita erano piccole, l'arma pesante e nel tentativo di scarrellare si fece male al pollice. È Luigi Bonaventura, un collaboratore di giustizia che ha preso parte a decine di processi. Ha terminato il suo programma di produzione mentre la sua famiglia è ancora sotto la tutela dello Stato. Lui è stato un bambino soldato della 'ndrangheta. "Si cresce in famiglie che ti inculcano la subcultura mafiosa con padri e zii che ti indottrinano al culto della famiglia 'ndranghetista. Cominciano portandoti le armi in casa, insegnandoti a pulirle, a maneggiarle, a caricarle e magari ti fanno ripetere il "giochino". Poi ti fanno vedere i fucili da assalto e tu che sei piccolo ne rimani affascinato. Assisti a perquisizioni, agli arresti, ti insegnano a disprezzare le forze dell'ordine. Sono tutte cose che alla fine, da bambino, ti condizionano e ti segnano la vita".

Bonaventura ricorda anche che veniva spesso portato al macello dove gli insegnavano a squartare gli animali ad avere confidenza con il sangue. "All'epoca io queste cose non le capivo, poi da grande ho compreso che era un modo per farmi prendere dimestichezza con la morte".

Bonaventura racconta che queste pratiche aiutano quando si commette il primo omicidio: "Fino al momento che spari non senti niente". Ancora oggi il clan praticano l'educazione criminale nei confronti dei bambini come dimostrano due recenti indagini in Piemonte e in Calabria. Per esempio nelle intercettazioni tratte dagli atti della direzione distrettuale antimafia di Torino, sfociata nelle operazioni "Criminal Consulting" e "Pugno di ferro" dell'ottobre 2019, si sente un uomo che dialoga con dei ragazzini e li invita a sentirsi orgogliosi di appartenere alla 'ndrangheta.

Oppure negli atti di un'inchiesta del settembre 2019 della procura di Reggio Calabria in cui un boss della piana di gioia Tauro addestra il figlio di otto anni al crimine. Nell'ordinanza si legge che il figlio minorenne di uno degli indagati non solo si rivelava consapevole dell'attività svolta dei genitori coinvolti in un commercio di stupefacenti, ma vi partecipava anche suscitando l'ammirazione del padre che osservava orgogliosamente che un giorno "gli avrebbe fatto le scarpe". Il trafficante di droga parlava tranquillamente con il figlio delle dosi e di armi istruendolo anche su come venivano risolti i contrasti con i fornitori internazionali.

"Che facevano ? una guerra succedeva qua - diceva - avevano Kalashnikov tutto così lo potevi ammazzare lo sotterravi e non sapeva niente nessuno invece i colombiani venivano qua e sai che facevano? il macello".

Il presidente del tribunale di minori di Reggio Calabria Roberto di Bella dopo aver visto per anni bambini utilizzati nel trasporto di droga e di armi o nella cura dei latitanti ha cominciato a sperimentare provvedimenti di allontanamento dei minori dalle famiglie di ndrangheta. Provvedimenti che ovviamente valutano situazioni caso per caso. Ad oggi il tribunale dei minori di Reggio Calabria ha adottato 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie nei confronti di 70 minorenni. Al momento 30 nuclei familiari hanno abbandonato la Calabria dissociandosi dalle logiche criminali.

"Mi ricordo di un ragazzino coinvolto a pieno titolo dell'attività della sua famiglia e che era costretto a trasportare armi da guerra e ad assistere al taglio delle dosi di droga. Ora il padre in carcere ed il ragazzino in un'altra località ed è finalmente libero, libero di studiare, di muoversi, di essere, ora che è più grande, un adolescente normale". Di Bella ha portato questa sua esperienza in un libro di recente pubblicazione "Liberi di scegliere", dove racconta le storie di questi ragazzi, i loro traumi e i loro sogni.

"Anche noi collaboratori di giustizia in qualche modo abbiamo portato via i nostri figli dai tentacoli dei clan. Loro fanno una vita di sacrifici, che non hanno scelto, rischiando la vita per gli errori che noi abbiamo commesso e subendo una serie di disfunzioni e difficoltà". Spiega Bonaventura che grazie anche al sostegno di sua moglie ha fondato l'associazione sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia e sta creando una ong per difendere i minori che crescono negli ambienti mafiosi "Stop mafia's children soldiers".

"Noi togliamo i nostri figli dalle origini per portarli in un ambiente migliore - spiega Giovanni Sollazzo, tesoriere del comitato sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia - in quanto nelle nostra terra potrebbero diventare possibile manovalanza della criminalità organizzata. Quindi li sradichiamo da quel territorio e li portiamo in un territorio sano ma in un certo senso anche a loro ostile, perché vengono esposti a molti pericoli e a molte discriminazioni: dobbiamo insegnargli a dire le bugie perché non possono dire il papà che lavoro fa, non possono dire da dove vengono né dove abitano, non possiamo avere il nome sul citofono di casa e a scuola sono facilmente individuabili. Per questo ci sarebbe bisogno di maggiore attenzione da parte del legislatore nei confronti dei familiari dei collaboratori e dei testimoni di giustizia perché possano avere una vita normale". Spesso però i ragazzini raggiungono una maturità ed una sensibilità a volte inaspettata: "Era la festa del papà - racconta Luigi Bonaventura - e ricevetti una lettera dai miei figli. C'erano scritte tante cose belle mi ringraziavano per le cose che riuscivo a dargli, per i regali e per l'affetto. Sembrava una lettera ordinaria di bambini normali. Invece alla fine c'era la sorpresa, perché nelle ultime righe scrissero: papà grazie soprattutto perché non ci hai condotto verso il percorso di una vita criminale".