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di Luigi Pagano


La Repubblica, 13 novembre 2019

 

Un incontro e un legame che inizia nel 1989: così lo convinsi a mangiare. Settembre 1989: arrivato a dirigere il carcere San Vittore già mi trovavo ad affrontare un caso spinoso. Un tale Bruno Brancher, arrestato in agosto per aver tentato di ammazzare la sua ragazza, dall'ingresso in istituto aveva iniziato lo sciopero della fame determinato a morire.

Non sapevo chi fosse, ma non doveva essere uno qualsiasi se il magistrato aveva cominciato a chiedere certificazioni sulle sue condizioni di salute e, nel contempo, autorizzava la corrispondenza senza censura con la redazione dell'allora ancora esistente l'Unità. Un giro di telefonate ad amici milanesi non produsse effetto nell'immediato.

Il suo nome, come Carneade a don Abbondio, evocava qualcosa, ma non si riusciva a mettere a fuoco cosa. Uno di loro, però, sembrò rammentare di aver letto la storia di uno che sembrava facesse di nome proprio Brancher, che aveva rubato una bici anni addietro. "Non una bici qualsiasi, si diceva fosse quella di Coppi e rubata al Vigorelli".

L'episodio, ammesso fosse vero, apparteneva alla preistoria, impensabile giustificasse l'interesse attuale del magistrato. La vicenda andava chiarita, inutile però indagare quando avevo lì, in istituto, chi poteva dirmi tutto.

Chiesi al comandante di chiamare in ufficio Brancher e, dopo un po', si presentò uno strano tipo, un arruffo di capelli sopra una testa tonda, baffoni staliniani, rotondetto. Rimase in piedi osservandomi di sbieco, ma non con piglio cattivo, e mi chiese chi fossi.

"Sono il direttore"

"Adesso li fanno così giovani?"

"Ho la mia età, 35 anni"

"San Vittore prima la davano a direttori esperti"

"Ah ma allora lei è già stato qui"

"Io? Ero bambino quando sono entrato la prima volta"

"Siamo precoci entrambi allora"

Sorrise, la schermaglia iniziale era finita e aveva deciso che poteva fidarsi.

"Brancher, io volevo solo conoscerla e chiederle perché vuole morire".

Non attendeva altro, credo. Iniziò a raccontarmi la sua vita, una sceneggiatura tra Scorsese e Woody Allen, un fittissimo discorso con bizzarra dialettica e una mano sulla bocca a cercare di limitare la balbuzie, poi d'improvviso inanellava intere frasi. Seppi della carriera da rapinatore impedita da quella maledetta balbuzie, del ripiego sulla tecnica del mattone, del carcere, della legione straniera, della scoperta del talento letterario, del rapporto con Oreste del Buono e Nanni Balestrini, dei libri pubblicati, della collaborazione con svariati giornali, della nuova vita con la ragazza che aveva cercato di ammazzare. Metà di quelle storie avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi narratore, capivo bene, ora, l'interesse che destava.

"Perché voleva ammazzarla?"

"Gelosia, è molto più giovane di me, Patrizia, e si era innamorata..."

"Non vorrei dirlo, ma succede"

"... di un'altra donna"

Di ordinario quell'uomo non aveva nulla, nemmeno l'essere tradito.

"E ora?"

"Voglio morire"

"Con lo sciopero della fame? Ce ne vuole di tempo"

"Perché dice così?"

"Perché se uno è intenzionato ad ammazzarsi ci sono tanti modi immediati e indolori"

Tentennò. "Forse, ma voglio morire, ormai ho perso tutto... ho già 57 anni"

"E che sarà mai? C'è gente che riinizia da 3, lei con le esperienze che si ritrova può permettersi di farlo a 57".

Il dialogo aveva preso una piega surreale, citavo battute da film davanti a una persona che voleva ammazzarsi. Invece no... annuì meditabondo quasi io avessi pronunciato chissà quale verità e annunciò che avrebbe smesso.

Stupore! In 10 anni di carriera non mi era mai successo di convincere un detenuto a rialimentarsi e con lui non ci avevo neppure provato. I suoi circuiti mentali seguivano psicologie complesse e non mi sono azzardato a chiedere cosa lo avesse colpito e portato a quella decisione nemmeno quando fu scarcerato e ci ritrovammo a diventare amici. O, meglio, come rimarcò in una dedica su di un suo libro, veri amici perché non avessi mai a confondere quell'affetto sincero che mi mostrava con una ritardata sindrome di Stoccolma.