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di Mario Chiavario


Avvenire, 5 novembre 2019

 

Bisogna leggere bene la sentenza della Consulta sull'ergastolo ostativo. Tanti magistrati criticano la Corte costituzionale per la sentenza che ha incrinato il regime dell'ergastolo "ostativo" cominciando ad ammettere che anche chi vi sia sottoposto possa fruire di permessi fuori dal carcere, pur se non abbia prestato una "collaborazione" per far scoprire altri delitti o altri delinquenti.

E a mostrarsi preoccupato per la decisione è persino uno che, come don Ciotti, ha speso e rischiato la vita in difesa dei deboli e in operoso contrasto alle varie mafie. Non c'è bisogno d'altro per sentirsi sconcertati, a prescindere dalle pesanti bordate e dagli sguaiati insulti contro la Corte, provenienti da diversi settori del mondo politico e giornalistico.

Già in atto, poi, un'iniziativa per una nuova legge o un decreto-legge in argomento, che dovrebbe porre rimedio ai guasti addebitati alla pronuncia dei giudici costituzionali. Inutile, qui, ripetere le ragioni che invece sostengono la soluzione cui la Corte è approdata, simili a quelle avanzate in relazione a un'analoga sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Più opportuno, forse, cercar di sgombrare il terreno da un equivoco che fa pensare a un sicuro e sciagurato lasciapassare per "libere uscite" a frotte di potenti boss e di feroci assassini. È proprio vero, infatti, che per la concessione dei permessi ai mafiosi tutto è ormai rimesso a un'illimitata discrezionalità dei magistrati che hanno il compito di "sorvegliare" l'esecuzione delle pene? A me sembra, al contrario, che quella discrezionalità venga ad essere vincolata da limiti tutt'altro che lievi; e ciò risulta chiaramente dal comunicato-stampa emesso dal Palazzo della Consulta il giorno stesso della pronuncia della sentenza.

Si è detto da molti che d'ora in poi si dovrà guardare, unicamente o principalmente, alla "buona condotta" carceraria dell'ergastolano "ostativo" ossia, per usare il linguaggio più tecnico impiegato dalla Corte stessa, al fatto che in carcere "il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo".

Se così fosse, la sentenza lascerebbe davvero perplessi (non a torto, invero, si è osservato che fa parte del codice mafioso l'apparire come modelli di comportamento nel quotidiano della vita penitenziaria). Ma non è così. Il quadro è più complesso, e pur sempre imperniato sul riconoscimento di un'importanza essenziale al rifiuto di collaborazione, che continua a dover essere normalmente impeditivo del permesso.

Certo, la presunzione di pericolosità del condannato, desunta da tale rifiuto, non è più "assoluta" (cioè non è più automaticamente e inderogabilmente preclusiva della concessione). Tuttavia, in termini "relativi", quella presunzione è ancora in vigore: la regola, cioè, quando si siano commessi certi reati e si rifiuti di collaborare con l'autorità, rimane il divieto di permessi; la si potrà sovvertire, ma solo se si portino positivamente "elementi tali da escludere sia l'attualità della partecipazione all'associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata".

Insomma, non basteranno pie intenzioni o benevoli attestati di resipiscenza; e anzi, in senso negativo, potranno avere peso decisivo le informazioni e i pareri di soggetti esterni al carcere e in grado di valutare appieno la corrispondenza tra le apparenze e la realtà, a cominciare dalla Procura antimafia, necessariamente da interpellare. Se il deposito - che si spera rapido - del testo integrale della pronuncia della Corte confermerà questa lettura, tutto ciò che ne discende potrà anche cristallizzarsi in un testo legislativo, eventualmente con più precisi criteri direttivi peri magistrati di sorveglianza, per porre più alti baluardi a minacce e ricatti nei loro confronti.

Più ardito, sul piano della correttezza costituzionale, il ricorso a un decreto-legge che preceda addirittura quel deposito. Si potrebbe dire che non mancano del tutto dei precedenti per casi simili. Ne ricordo uno, in particolare, di quasi cinquant'anni fa, quando un provvedimento del genere venne emanato - su iniziativa informale dello stesso Presidente della Corte di allora - per evitare inopinate liberazioni di soggetti pericolosi come conseguenza di una sentenza che aveva esteso anche alle fasi processuali successive all'istruttoria il principio della scarcerazione per decorrenza dei termini massimi della carcerazione preventiva.

Ma, in tal caso, appunto, il mutamento legislativo non fu per andare contro ciò che era stato deciso: al contrario, introducendosi da subito l'estensione voluta dalla Corte ma ritoccandosi al rialzo quei termini, si diede invece alla sentenza una sorta di applicazione anticipata ma priva di effetti dirompenti. Neppure quel precedente, dunque, potrebbe essere invocato per reintrodurre oggi, sia pur soltanto per qualche categoria di persone, una norma inequivocabilmente dichiarata incostituzionale.