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di Fabrizio Vanorio*


La Repubblica, 5 novembre 2019

 

La recente sentenza della Corte costituzionale non ha affatto "abolito" l'ergastolo o "aperto le porte" delle carceri ai boss mafiosi. A distanza di circa una settimana dalla sentenza della Corte costituzionale sul cosiddetto ergastolo ostativo, a sua volta preceduta dalla condanna del nostro Paese in sede europea da parte della Cedu con la sentenza Viola c. Italia del 13 giugno scorso, è forse possibile svolgere un'analisi più pacata sugli effetti concreti della decisione e su alcune questioni di fondo come il contrasto alle organizzazioni mafiose e la funzione della pena detentiva.

In primo luogo, va precisato per i non addetti ai lavori che la sentenza non ha affatto "abolito" l'ergastolo o "aperto le porte" delle carceri ai boss mafiosi: la decisione ha semplicemente modificato l'ordinamento penitenziario (dichiarando un articolo parzialmente incostituzionale), nella parte in cui escludeva radicalmente dai permessi premio i condannati per reati di mafia e assimilati, che non avessero intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia e ciò a prescindere dalla verifica, da parte del magistrato di sorveglianza, della rescissione dei collegamenti del detenuto con l'organizzazione di pregressa appartenenza.

Si tratta, dunque, di una decisione senza dubbio importante, ma che non avrà ragionevolmente effetti dirompenti, se i controlli della magistratura di sorveglianza, a sua volta confortata da approfonditi pareri degli organi inquirenti, Procure antimafia e forze di polizia giudiziaria, saranno accurati e adeguati ai singoli casi in discussione.

Ma è chiaro che si devono affrontare con competenza tutti i problemi che la nuova disciplina inevitabilmente comporterà: vediamo quali. Senza dubbio, come hanno notato tanti miei colleghi, da anni impegnati in indagini e processi a organizzazioni mafiose, la strada principale per verificare la "fuoriuscita dalla struttura e dalla mentalità mafiosa" è e deve restare quella della collaborazione con la giustizia, genuina e utile per lo Stato.

Forme alternative e ambigue come quelle della "dissociazione", più volte promossa dai vertici di varie mafie nazionali per garantire benefici a chi non offre alcun contributo processuale serio, nello stesso tempo non tagliando i legami con i pericolosi gruppi criminali di appartenenza, vanno tuttora respinte con decisione. Inoltre, va sempre salvaguardato il principio anche giuridico della specificità mafiosa, che impone al magistrato in ogni fase del processo di comprendere la dimensione "collettiva e perdurante" delle condotte di questo genere di criminali, per cui il mafioso resta generalmente tale anche in carcere e continua a ricevere vantaggi economici e morali dall'organizzazione.

Tuttavia, la tanto criticata sentenza della Consulta, non mette assolutamente in discussione questi principi, anzi, impone giustamente al magistrato di sorveglianza un onere rafforzato, proprio perché si tratta di detenuti mafiosi: quello di verificare persino il pericolo di ripristino di collegamenti con i clan.

Dunque, non solo il detenuto deve aver fornito effettiva prova di rieducazione e di reinserimento, ma in sostanza non deve avere più alle spalle un clan attivo, con il quale egli possa ancora avere contatti anche indiretti, grazie ad associati e familiari in libertà e alle imprese o risorse da costoro controllate. In altri termini, il pericolo di liberare anzitempo mafiosi relativamente giovani e appartenenti a clan ancora pericolosi, che per giunta non hanno scelto di collaborare con la giustizia, non esiste, se le norme vengono correttamente e prudentemente - è il caso di dire - interpretate.

È chiaro, poi, che possono esservi gli errori, ma nella mia quotidiana esperienza dei processi di mafia constato che ve ne sono altri, più frequenti di quelli dei giudici di sorveglianza - molto severi anche con i collaboratori di giustizia - penso alle pene temporanee a volte ridotte ai camorristi senza giustificazione per la concessione eccessiva della "continuazione" o ad alcune assoluzioni di affiliati o imprenditori concorrenti dei clan, per effetto di valutazioni errate delle prove. Dunque, se un principio è giusto, la marginale possibilità di errori non può condurre alla sua negazione. Nel caso di specie, è inutile aggirare il problema, il principio è che l'ergastolo è conforme alla Costituzione solo se sono previsti istituti per la sua eventuale limitazione, come quello della liberazione condizionale per i detenuti realmente ravvedutisi: lo ha stabilito anche in questo caso la Consulta ben 45 anni fa.

E bisogna anche capire che il nostro sistema penale presenta rigidità incomprensibili, che impongono ai giudici, per i delitti più gravi, la difficilissima alternativa tra una condanna massima a 30 anni di reclusione e quella all'ergastolo, senza alcuna possibilità di modulazione. Per questo mi pare necessario abbandonare le polemiche troppo ideologiche tra opposti schieramenti, per comprendere che c'è differenza tra un ergastolano cinquantenne, ai vertici di un clan con rapporti internazionali, e un ergastolano detenuto da trent'anni per un'isolata partecipazione a un omicidio di mafia, deciso da un clan che non esiste più. In definitiva, la attenta salvaguardia della normativa antimafia e dei suoi strumenti applicativi e la doverosa tutela delle vittime con misure di protezione e assistenziali possono ben accompagnarsi a istituti come i benefici penitenziari per i detenuti realmente riabilitati o non più pericolosi in alcun modo. In queste concessioni di diritti a chi è stato sottoposto a lunghi e controllati periodi di recupero e ha mostrato rispetto per le vittime o a chi è ormai molto anziano o persino non più autosufficiente, non si manifesta un cedimento o una sconfitta, bensì una vittoria dello Stato. Del moderno Stato di diritto.

 

*Segretario della sezione di Napoli di Magistratura democratica e componente della Dda della Procura di Napoli