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di Carla Chiappini*

 

Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2019

 

È entrato in carcere a 19 anni; oggi ne ha quasi cinquanta, si è laureato in Giurisprudenza e da trent'anni vive in una cella, ha conosciuto tante prigioni dal nord al sud dell'Italia e dal 1989 non ha mai camminato libero nel mondo, neppure per pochi passi.

Qualche giorno fa mi ha scritto: - Oggi ti ho detto (ndr. a Parma nella redazione di Ristretti che coordino da tre anni con 12 detenuti di Alta Sicurezza di cui dieci ergastolani ostativi) che quel Claudio del reato non c'è più...è altro da me. C'è troppo tempo tra me di adesso e lui... Claudio è nato in Puglia; nella sua terra ha commesso reati molto gravi all'interno di una "guerra criminale".

È stato condannato giovanissimo all'ergastolo e quasi subito trasferito nel carcere di Pianosa dove ha conosciuto anche la violenza delle istituzioni. Oggi è un uomo molto stanco. Molto dignitoso e molto stanco. Qualche volta dice, non senza un filo di autoironia, che è davvero cresciuto in carcere perché quando è entrato non aveva nemmeno completato lo sviluppo fisico.

Dunque di ergastolo ostativo si può parlare a tanti livelli; da quello giuridico su cui si è espressa la Cedu - Corte Europea dei Diritti Umani a quello umano e spirituale di Papa Francesco che non ha paura di usare parole forti e vere, definendolo una "pena di morte mascherata".

E poi si può incontrarlo nei volti, nei corpi, nelle testimonianze di persone rinchiuse anche da più di quarant'anni come l'ultimo redattore che si è aggiunto nel gruppo di Parma. E quando lo vedi e lo ascolti e lo incontri ti rendi conto di tutta la pesantezza e il dolore di una pena senza fine.

A me, che giurista non sono, pare piuttosto evidente che l'articolo 27 della Costituzione quando parla di "pene che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" non legittimi in alcun modo una pena senza fine che consegni le persone alla morte in carcere. E nemmeno mi pare ragionevole pensare che la sola prova del proprio ravvedimento sia la scelta di una collaborazione che esporrebbe i familiari a rischi e ritorsioni e che, tra l'altro, in molti casi non sarebbe più di nessun aiuto alla giustizia perché troppo lontana dai fatti.

La materia è molto più complessa e delicata di quanto si possa immaginare e trovo davvero presuntuoso l'atteggiamento di chi, non sapendo quasi nulla, esprime giudizi affrettati e spesso violenti. La vera domanda, l'unica possibile è: - Cosa è la giustizia? Una sorta di vendetta istituzionale del tutto speculare alla vendetta criminale? O una strada, seppur lunga e dolorosa, per un cambiamento e un ritorno nella società?. I padri costituenti così ce l'hanno consegnata e credo che difenderla sia un compito di tutti.

*Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma