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di Gian Domenico Caiazza*

 

Il Riformista, 30 ottobre 2019

 

Il populismo giustizialista si nutre di menzogne. Quando la Corte Costituzionale restituisce finalmente ai Tribunali di Sorveglianza il compito di valutare se un ergastolano possa meritare o meno un permesso premio, occorre spaventare la gente dicendo che ora Bagarella te lo ritrovi per le strade di Corleone. E che così è stato ucciso una seconda volta Giovanni Falcone, anche se questo ergastolo ostativo non era in realtà il suo. Serve indignare, spaventare, suscitare rabbia per consolidare consenso politico e fortune editoriali.

Ecco allora che la prescrizione dei reati deve essere raccontata non come il doveroso rimedio all'infame pretesa che un cittadino rimanga a vita in balia della giustizia penale, ma come una scandalosa esclusiva italiota nelle mani degli "avvocatoni", cosicché politici e potenti "la fanno franca", come Berlusconi ed Andreotti nel millenovecento e nonsoché.

Gli avvocati, come è ben noto a chiunque pratichi le aule giudiziarie e sappia leggere un codice, non hanno il benché minimo strumento - ma dico: il benché minimo - per far prescrivere reati. Qualunque impedimento pur legittimo del difensore o dell'imputato - impegno in altro processo, malattia, sciopero - determina puntualmente la sospensione del corso della prescrizione. Macché: se leggi il Fatto Quotidiano apprendi che l'astensione dei penalisti della scorsa settimana concorrerebbe alla prescrizione dei fatti di Rigopiano, per dirne una.

Quanto allo strumento degli imputati ricchi e potenti, basterà leggere le statistiche del Ministero di Giustizia. Il 60% circa delle prescrizioni matura prima della udienza preliminare, quando gli avvocati, per dirla con gergo calcistico, non hanno toccato palla. Una falcidia letteralmente interclassista, che per di più colpisce per la massima parte reati bagatellari che il sistema comunque non potrebbe assorbire. Una volta si usavano le ricorrenti amnistie per riequilibrare la ingestibile obbligatorietà dell'azione penale, oggi ci pensa la prescrizione nella fase delle indagini ("il nostro quantitative easing", ha felicemente detto uno dei più autorevoli magistrati italiani).

Un altro 15% di prescrizioni matura entro la sentenza di primo grado. Dunque se il Ministro Bonafede leggesse le sue stesse statistiche, comprenderebbe che la sua riforma "epocale" andrebbe ad incidere sì e no sul 25% delle prescrizioni (che a sua volta ammonta, per la cronaca, al 10% del totale dei procedimenti penali, non proprio una apocalisse).

In cambio di questa marginalità di risultati, questa "riforma epocale" introduce tuttavia nel nostro sistema un principio letale e semplicemente incivile: lo Stato si prenda tutto il tempo che gli serve per celebrare processi e definire innocenti o colpevoli; imputati e parti offese se ne stiano lì, se necessario vita natural durante, ad aspettare i suoi comodi. È la definitiva consacrazione di una categoria sociale in verità già tristemente diffusa: l'imputato a vita. E con lui -quel che non capiscono gli analfabeti che pensano di poter parlare di diritto penale come al bar dello sport - anche le parti civili, le cui aspettative risarcitorie nel processo penale seguono le sorti dell'imputato.

Il Consiglio Superiore della Magistratura e la stessa Anm hanno con chiarezza denunziato che la abrogazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rallenterà in modo esponenziale la definizione dei processi, come può in verità comprendere anche un bambino. Oggi infatti i processi in Corte di Appello e in Cassazione vengono celebrati con l'occhio attento alla data di prescrizione dei reati, ben segnata sulla copertina del fascicolo. Una volta eliminata quella data, che fretta c'è? Perché caricare - come oggi si fa - i ruoli di udienza di quaranta o cinquanta processi? Ne fisseremo venti, e ce ne torniamo a casa tutti, giudici ed avvocati, per ora di pranzo.

La prescrizione è dunque un istituto di radicata civiltà giuridica, che sancisce un principio di elementare giustizia: la potestà punitiva dello Stato non è, non può essere, illimitata nel tempo. Può trattarsi - come in molti sistemi processuali di civiltà occidentale - di prescrizione dell'azione: trascorsi un certo numero di anni, non puoi più nemmeno iniziare una indagine penale, o non la puoi proseguire; o di prescrizione del reato, come nel sistema italiano.

Sapete in quanti anni si prescrivono i reati di maggiore allarme sociale nel nostro Paese? Vi farò qualche esempio. La violenza sessuale in 30 anni, l'omicidio stradale da 30 a 45 a seconda delle varie ipotesi aggravate, da 25 a 50 l'inquinamento ambientale che provochi morti o lesioni, 37 anni e 6 mesi il disastro ambientale, 24 anni lo scambio elettorale politico mafioso, 40 anni l'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, 60 anni il sequestro a scopo di estorsione, in 30 anni l'associazione mafiosa, in 30 anni la corruzione in atti giudiziari, da 17 anni e sei mesi fino a 25 anni e tre mesi i maltrattamenti in famiglia, in 25 anni la rapina e l'estorsione, in 18 anni e nove mesi la bancarotta fraudolenta, in 15 anni la concussione; e potrei continuare. Per di più, a seguito della riforma Orlando approvata solo due anni fa, tutti questi termini sono prorogati di ulteriori tre anni dopo la sentenza di primo grado e fino alla sentenza di Cassazione.

Non bastano tutti questi anni? Dobbiamo poter processare qualcuno per violenza sessuale per più di 33 anni, per poi magari assolverlo (come avviene almeno nel 50% dei casi)? Ed è concepibile, in caso di condanna, mandare in carcere una persona per un fatto che egli ha commesso 33 anni prima, quando era uno scapestrato di diciotto anni, mentre oggi è un padre di famiglia cinquantenne?

Ecco perché lo scontro sulla riforma della prescrizione va ben al di là dell'impatto di quella sciagurata norma, destinata altrimenti ad entrare in vigore il primo gennaio 2020. Si misurano qui due idee del diritto, due concezioni opposte e non conciliabili della giustizia penale, al di qua o al di là dei confini tracciati dalla nostra Costituzione.

Si tratta di scegliere tra una idea profondamente autoritaria che pone al centro del diritto penale e delle sue regole la potestà punitiva dello Stato, la quale non deve conoscere limiti e condizionamenti di sorta; ed una idea liberale del diritto penale, che pone al centro della propria scala valoriale la persona ed i suoi diritti, e dunque la necessità di porre argini al potere immenso ed altrimenti incontenibile dello Stato. Questa è la vera partita in gioco, nascosta dietro le fumisterie della becera propaganda populista. Una partita, è bene che lo si sappia, che si è già giocata oltre settant'anni fa, quando i nostri padri costituenti scelsero senza esitazione l'idea liberale del diritto e del processo penale.

Questo è il grido d'allarme che hanno lanciato in questi giorni i penalisti italiani, dando il via ad una battaglia civile che - sia ben chiaro - è solo agli inizi. Sono in gioco valori costituzionali fondamentali di tutti i cittadini, altro che il privilegio degli impuniti. Occorre perciò che i mezzi di informazione facciano il loro dovere, liberando l'opinione pubblica dal giogo umiliante della disinformazione sistematica e cinica fatta di slogan volgari e vuoti, o di minacciose ed allarmanti previsioni prive di ogni fondamento nella realtà. Ed occorre che la politica ritrovi il senso profondo della propria nobiltà perduta, schierandosi in difesa dei valori e delle idee, piuttosto che immiserirsi nella rincorsa degli umori di una opinione pubblica inferocita ad arte, ma drammaticamente inconsapevole.

 

*Presidente Unione Camere Penali Italiane