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di Andrea Galli


Corriere della Sera, 30 ottobre 2019

 

Gli ottant'anni del sacerdote, da mezzo secolo al carcere minorile Beccaria: "La sfida di oggi? La bassa autostima degli adolescenti". Carcere minorile Beccaria, dieci del mattino, ufficio di don Gino Rigoldi: due sedie, un tavolino, finestra spalancata che dà sull'interno del penitenziario e stop, ma è ovvio così, altrimenti non sarebbe lui, don Virginio detto Gino, nato a Milano il 30 ottobre 1939, quartiere Crescenzago, periferia, ed è ovvio anche questo.

 

Intanto, buon compleanno. Quante vite ci sono nei suoi ottant'anni?

"Pensavo: è dal 1972 che vivo in questo luogo. Una delle mie case. Da allora sono passati trentamila ragazzi".

 

E li ha conosciuti tutti?

"Direi di sì. Anche oggi, come del resto ieri, come domani, io starò nelle celle. Non ricevo mica: vado da loro. Senza paura".

 

Paura?

"Non la paura fisica... Su, non scherziamo... Intendo la paura di entrare nella sofferenza, nei

tormenti, nella legittima richiesta di risposte".

 

Gli telefonano. Don Gino ascolta la domanda, appoggia il cellulare su uno degli inconfondibili suoi golfini, dice: "Quando finiamo con questa intervista? Tre minuti bastano?". Beh no, don, considerato che abbiamo iniziato da quattro minuti, magari potremmo... Riprende il telefonino, dice: "Cinque minuti e ho terminato". A posto.

 

Oggi al Beccaria ci sarà una grande festa organizzata dai suoi ragazzi.

"Mi ha fermato uno prima, ha detto: "Auguri di cuore". E io: "Grazie, ma caspita, sto diventando proprio vecchio". E lui: "Non lo dica nemmeno, non può mica lasciarci tutti quanti orfani"".

Adesso: dei progetti in cantiere del don, si perde il conto. Dopodiché, bisogna rispettare una specie di giuramento, non menzionando alcuni dei medesimi progetti. Di altri, si può benissimo parlare. Per esempio del centro giovanile ("Festeggio il giusto e torno subito a lavorarci sopra").

 

Dunque, parliamone.

"Qualche finanziatore l'ho già trovato. Ma non basta. Non basta mai. Quindi spero che si facciano avanti altri generosi. So che succederà. La mia idea è la seguente: un grande centro giovanile che unisca l'oratorio a una scuola di mestieri, la preparazione per appunto a un lavoro, con gente che te lo insegna, e non per forza, con tutto rispetto, saranno solo lavori manuali non difficili da apprendere, e allo stesso tempo sarà uno spazio per il gioco, il divertimento, le letture, il pallone, il teatro. Ci saranno appartamenti dedicati a particolari situazioni e ci saranno fruitori chiamiamoli così di giornata che verranno, che so, a imparare a suonare la chitarra. Sarà una grande eterogenea comunità, una comunità aperta su questa Milano - che, ahimè, e apro una parentesi, vede correre i prezzi ma non gli stipendi - e con un concetto di base. Fondamentale: la capacità di fare gruppo. Che rimane uno dei migliori strumenti per aiutare questi giovani di oggi, così a volte ossessivi nella bassa auto-stima".

 

Perché?

"Per paura, scelgono di isolarsi. Una forma di difesa. Ma se noi adulti incentiviamo le occasioni di stare insieme, forniamo un aiuto unico".

 

C'entrano i genitori, c'entrano sempre.

"Oh, i genitori... Spesso misurano i figli - quello che fanno, come lo fanno, quello che pensano, quello che dicono - su una personale scala di giudizio, che corrisponde banalmente al proprio successo o insuccesso... Non ci sei tu, figlio, ci sono io... Anche se, per la cronaca, questi genitori contemporanei non hanno certezze nel futuro, vedono tutto nebuloso, e questo non aiuta... Ogni estate mando un centinaio di ragazzi in Romania, nei centri di aiuto alle fasce deboli. Quando tornano sono gasatissimi. Stando l'uno al fianco dell'altro, diventa un processo naturale quello di lasciarsi andare, svelare un'angoscia, confidare un sogno. Parlare, ascoltare. Insomma, il concetto di comunità; e il concetto dell'amore, sempre lì si torna".

 

Stiamo sui giovani. La droga.

"Pensavo che certe stagioni, quelle da adolescenti dei sessantenni di oggi, quando l'eroina dimezzava classi d'età, ecco, non si sarebbero ripresentate... Un'emergenza enorme, la droga. Sto spingendo per la nascita di una comunità terapeutica per tossicodipendenti. In questa vita servono i fatti. I fatti, e poi certamente i luoghi adatti, e il personale giusto. Così come anche fra i detenuti minorenni in parecchi hanno problemi di natura mentale, conseguenza di traumi psichici atroci - chi ha attraversato prima l'Africa e poi il mar Mediterraneo - che non possono essere gestiti in carcere".

Il tempo è terminato, don Gino esce dall'ufficio, lascia il Beccaria, attraversa la strada di corsa, sì, proprio di corsa, verso il prossimo interlocutore che l'aspetta, e sarà uno dei mille di giornata. Ovvio.

 

Concludendo, don?

"Ho tante ma tante e tante di quelle cose da fare, che mi serve ancora e ancora tempo. Un sacco di tempo. Con l'intervista va bene, sem a post?".