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di Lorenzo Tosa


generazioneantigone.it, 25 ottobre 2019

 

Da una parte la civiltà che faticosamente abbiamo costruito negli ultimi 150 anni; dall'altra il furore giustizialista che nell'ultimo decennio abbiamo accarezzato, agitato, sdoganato. Due mondi. Due visioni contrapposte che, mai come oggi, sono destinate a spaccarsi attorno all'ergastolo ostativo, ovvero una forma estrema di detenzione a vita che non prevede sconti di pena, né alcun genere di premialità e permessi. Il famigerato "Fine pena mai", per intenderci.

Inserita nel nostro ordinamento con la legge 356 del 1992, si tratta di una misura eccezionale concepita nel pieno della stagione delle stragi per scoraggiare i detenuti accusati di mafia che rifiutavano di collaborare con la giustizia. Secondo molti, tra cui il pm Nino Di Matteo e il Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, l'ergastolo ostativo, associato al carcere duro previsto dal 41bis, si è rivelato uno strumento decisivo nella lotta alla mafia. Con un solo piccolo (trascurabile, di questi tempi) dettaglio: l'ergastolo ostativo viola i più elementari diritti umani della persona.

E non lo diciamo noi, ma due diverse sentenze emesse nel giro di quindici giorni. Il 9 ottobre scorso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha chiesto ufficialmente all'Italia di rivedere le proprie norme in materia poiché in palese violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, la quale vieta espressamente "trattamenti e punizioni inumane e degradanti". Dello stesso segno un'altra, storica, sentenza con cui ieri la Consulta ha dichiarato incostituzionale l'ergastolo ostativo. Logica conseguenza dell'applicazione della Costituzione italiana, che all'articolo 27, comma 3, recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Si rassegnino i teorici della ragione superiore, i razzisti giudiziari secondo cui esistono detenuti di serie A e detenuti di serie B, se ne facciano una ragione i garantisti a targhe alterne, i costituzionalisti della domenica: non c'è nessun passaggio o codicillo che escluda i mafiosi dal resto dell'umanità, che li retroceda ad "animali", a bestie, come vorrebbe il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

In particolare, il passaggio chiave è contenuto nel finale dell'articolo 27 e fa riferimento allo scopo ultimo e lo spirito più alto di ogni forma di reclusione: la rieducazione del detenuto. Esclusa non solo dall'ergastolo ostativo ma anche dall'ergastolo semplice, che nega formalmente (anche se non materialmente, al netto di premi e permessi) qualsiasi percorso di riscatto, ravvedimento e reinserimento della persona all'interno della società.

Se dal punto di vista strettamente giuridico la questione è chiusa, restano da sciogliere tutti i nodi legati all'effettivo, e innegabile, ruolo decisivo che l'ergastolo ostativo ha avuto negli ultimi 25 anni nella lotta e nel contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata. Ed è qui che entra in gioco la politica, chiamata ad abbandonare un approccio ideologico per trovare un punto di caduta in grado di contemperare la lotta alle mafie e la tutela dei più elementari principi di rispetto dell'essere umano, attorno a cui abbiamo eretto una società civile, illuminista e progressista.

È facile? No, per nulla. Ma è questo che fa la politica, quella alta: non strizza l'occhio agli istinti più bassi dell'opinione pubblica, lasciandosi trascinare dalla corrente. Non contesta le sentenze, le applica. E lavora per costruire un'alternativa che riunisca le esigenze della giustizia con i cardini del diritto. Senza slogan, né facile demagogia. Non porterà voti o consensi, ma si corre il rischio di fare finalmente qualcosa di buono per questo Paese.