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di Alberto Cisterna*


Guida al Diritto - Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019

 

Per Alberto Cisterna la sentenza Viola contro Italia non punta a scardinare il sistema delle preclusioni sui benefici penitenziari e a favorire la scarcerazione dei boss, impone solo una personalizzazione del trattamento penitenziario che sia rispondente alle effettive ed evidenti esigenze di prevenzione che giustificano le deroghe al principio di rieducazione e proporzionalità della pena nel tempo.

Prima il caso Contrada sul concorso esterno (diritto penale), poi la sentenza De Tommaso (misure di prevenzione) adesso l'affaire Viola (ordinamento penitenziario). È del tutto chiaro che le traversine su cui si è costruito il "doppio binario" italiano per il contrasto alle mafie scricchiolano e qualche rotaia mostra preoccupanti crepe. Certo potrebbe imprecarsi alla perfida Strasburgo che, secondo talune vestali, così agisce perché disconosce o addirittura misconosce la piovra italica e i suoi velenosi tentacoli.

Oppure si potrebbe immaginare con maggiore realismo (molti dei Paesi che siedono alla Corte europea sono afflitti da legislazioni emergenziali e da fenomeni criminali altrettanto gravi: si pensi al terrorismo in Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania. Spagna ect.) che sia entrata in fibrillazione la capacità delle autorità nazionali di rappresentare in modo convincente la persistente pericolosità delle organizzazioni mafiose e le deroghe che esse dovrebbero imporre alla mitezza e proporzionalità del diritto sanzionatorio in senso lato.

Affrontare questo crinale della discussione è sempre scomodo, ma non si può mancare di evidenziare i segnali che provengono dalla Corte costituzionale (le sentenze n. 24 e n. 25 del 2019) e dalla Corte di legittimità (la sentenza n. 27766 del 2017 sul caso Riina che suscitò un nugolo di polemiche) che, sia pure gradualmente, si stando orientando in direzione di un parziale, ma progressivo rientro dal diritto emergenziale imposto dalle efferati stragi del 1992 e del 1993, il biennio dell'attacco feroce di Cosa nostra corleonese allo Stato.

Il discorso dovrebbe essere molto più articolato e richiederebbe una molteplicità di approcci (giudiziari, sociologici, mediatici, criminologici per restare ai più rilevanti) tuttavia, schematicamente, possono dirsi alcune cose:

a) taluni operatori non riescono proprio a capacitarsi di quali siano gli ostacoli che si frappongono all'espansione planetaria del reato di cui all'articolo 416-bis del Cp invocata in tutte le occasioni; ritengono che tale ritrosia sia il segnale di una incapacità di cogliere il fenomeno e si disperano innanzi alla chiara tiepidezza dei propri interlocutori europei e internazionali;

b) la polemica deriva da una sorta di strutturale incomprensione della fattispecie di cui si discute la quale ha quale caposaldo fondamentale non tanto la dimensione associativa (nota nell'ordinamento di Francia molto prima che in Italia), quanto la capacità di intimidazione e la sua idoneità a determinare condizioni di assoggettamento e omertà;

c) molti Paesi europei (praticamente tutti, per fortuna) non hanno neppure idea di cosa si stia discutendo poiché non riescono in alcun modo a rinvenire nelle proprie comunità questi segnali velenosi che si sprigionano dalle associazione mafiose autoctone, per cui, dopo aver ascoltato le agitate e, spesso, convulse relazioni italiane, i nostri interlocutori escono ancora più rafforzati nel convincimento di non avere alcuna necessità di approntare norme similari che, obiettivamente, affidano alle autorità di polizia e giudiziaria una grande discrezionalità nell'interpretare le realtà sociali che si ritengono sottoposte al giogo mafioso;

d) questo non vuol dire, e quei Paesi certo non lo negano, che le associazioni mafiose e similari non operino all'estero (si pensi solo alla strage di Duisburg del 2007) e che abbiano in altri Stati basi operative, centri di interesse e quant'altro; semplicemente sta a significare che non agiscono altrove come fanno in Italia, ossia non sprigionano alcuna circostante capacità di intimidazione ed è molto ristretto il numero dei soggetti che percepiscono la condizione di omertà e assoggettamento come necessaria per evitare ritorsioni; quando chiedono quali siano i reati commessi all'estero da queste propaggini non hanno mai risposte precise e il solo riciclaggio non allerta più di tanto;

e) si potrà obiettare che, fuori dai confini italiani, le altre nazioni sono refrattarie a comprendere le lezioni che didascalicamente vengono loro impartite da anni e anni di missioni, convegni, relazioni e via seguitando nei più svariati consessi oltre che mediaticamente; ma, in effetti, basterebbe leggere con attenzione l'ottima ordinanza del 17 luglio 2019 con cui il Presidente aggiunto della Cassazione ha restituito ex articolo 172 delle disposizioni di attuazione del Cpp alla Prima sezione la questione dell'identificazione e della rilevanza delle stimmate di cui all'articolo 416-bis del Cp per le organizzazioni operanti fuori dai contesti storici di derivazione (le cd. cellule silenti o delocalizzate) - per comprendere quanto il problema sia avvertito anche all'interno della giurisdizione nazionale e quanto suoni decisivo il richiamo a una "capacità intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile" nella collettività che questa ordinanza evoca;

f) per giunta tutta l'industria culturale (libri, serie televisive, convegni) che si aggira intorno al mondo della lotta alla mafia, con frequenti esagerazioni sanguinolente, parossismi e qualche gratuita atrocità contribuisce, in modo evidente, a ottenere il contrappasso di rassicurare gli osservatori stranieri i quali hanno gioco facile nel non riscontrare in patria analoghi virtuosismi criminali e nel ritenere che si tratti solo di urgenze nazionali da compatire e un po' da condividere (si veda, in questa main stream la candidatura all'Oscar di un bellissimo film dedicato alla parabola di Tommaso Buscetta).

Si potrebbe proseguire nell'enumerazione per parecchio, ma il punto che si intende porre al centro dell'attenzione è che appare molto difficile per le autorità nazionali rappresentare nei consessi internazionali un'emergenza mafiosa per la quale, obiettivamente, sono venuti progressivamente a mancare gli indicatori di maggiore efferatezza (stragi, attentati e via seguitando). Questo, si badi bene, soprattutto grazie all'eccezionale risposta delle forze di polizia e della magistratura, alla predisposizione di strumenti di prevenzione (confisca in primis) e repressione (articoli 4-bis e 41-bis dell'Ordinamento penitenziario) efficaci e a una generale, evidente, rivolta morale del Paese dopo la stagione del 1992-1993.

Ma per nazioni che si confrontano con stragi eclatanti (si pensi alla Francia del Bataclan o del lungomare di Nizza e non solo) manca, per fortuna, un termine di riscontro adeguato: come dimenticare la chiusura del Parlamento europeo a Strasburgo nel corso dell'attentato dell'11 dicembre 2018. L'Italia è uno dei Paesi con i minori tassi di delittuosità al mondo, ha un rapporto forze di polizia/cittadini tra i più alti, ha un numero di omicidi annuo incomparabili in proporzione, a esempio, con quello della sola Londra: n. 131 nel 2018, mentre in Italia dal 1° agosto 2018 al 31 luglio 2019 sono stati n. 307 di cui solo 25 attribuiti alla criminalità organizzata, per gli altri spesso si tratta di orrendi femminicidi o di stragi in ambito familiare: n. 145 (fonte: ministero dell'Interno).

Parlando delle mafie si usano sempre più spesso terminologie (inabissamento, cellule silenti, mimetizzazione ect.) - invero contraddittorie con i postulati fondamentali dell'articolo 416-bis del Cp tutti orientati verso la visibilità e la riconoscibilità collettiva delle associazioni mafiose ("comunque localmente denominate") - che mettono in fibrillazione l'applicazione di regimi speciali tutti orientati verso l'emergenza percepita e percepibile.

Una metamorfosi che non lascia indifferenti gli osservatori meno coinvolti e più disinteressati i quali percepiscono nel riallineamento dei connotati delle mafie in direzione di forme corruttive, di inclusione sistemica, di nascondimento sociale, di mimetizzazione economica e politica il rischio di una pericolosa espansione della discrezionalità giudiziaria e la dimostrazione che il modello dell'articolo 416-bis del Cp merita oculati e prudenti aggiustamenti, ormai invocati anche in modo autorevole.

Tutto questo per rendere un po' più comprensibile quella che sembra delinearsi come una sorta di progressiva insostenibilità del doppio binario italiano innanzi alla Corte di Strasburgo e non solo. L'ordinanza del Presidente aggiunto del luglio scorso, soprattutto nella parte in cui ricorda la necessità di una "generale percezione" nella collettività dell'agire mafioso, potrebbe avere un rilievo decisivo per dare vigore a questa riflessione o per affossarla definitivamente in una sorta di arroccamento al passato poco incline a correzioni e miglioramenti.

In questo scenario in movimento la sentenza Viola contro Italia non può dirsi che punti a scardinare il sistema delle preclusioni sui benefici penitenziari (si veda il contributo di Fiorentin in questo numero) e neppure che voglia favorire la scarcerazione dei boss, impone solo una personalizzazione del trattamento penitenziario che sia rispondente alle effettive ed evidenti esigenze di prevenzione che giustificano le deroghe al principio di rieducazione e proporzionalità della pena nel tempo.

È evidente che perché il regime duro di carcerazione possa apparire ragionevole dopo decenni di restrizione è indispensabile che alla magistratura di sorveglianza (presidio della legalità e costituzionalità della pena) siano rappresentate circostanze concrete che impediscano la mitigazione del trattamento o, per la difesa, che la impongano. E, questo, non sempre è agevole.

L'ostacolo rappresentato dalla mancata collaborazione di giustizia (l'unica way out alle preclusioni ex articolo 4-bis) dovrebbe essere ora superato dal dictum della Corte di Strasburgo ed è chiaro che non saranno più sufficienti stereotipi e clausole di stile per interdire a vita l'accesso a misure alternative. La rielaborazione del modello mafioso, la rimodulazione dei suoi connotati è appena all'inizio e deve fare i conti con un fronte "conservatore" non sempre disinteressato al mantenimento dello status quo. Un redde rationem, come si è detto, avviato non a caso proprio dalla Cedu, prima che dalla giurisdizione nazionale, e questo sulla scorta di un approccio progressivamente meno contaminato dalla terribile esperienza dall'ultimo decennio del secolo scorso e più attento a valutare, qui e ora, la ragionevolezza dello stato d'eccezione alla luce dei principi convenzionali.