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di Fabio Fiorentin*


Guida al Diritto - Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019

 

Strasburgo ha confermato l'accertamento della violazione da parte dell'Italia dell'articolo 3 della Cedu sotto il profilo della pena dell'ergastolo "ostativo" italiana: l'unica possibilità prevista per gli ergastolani di accedere ai benefici penitenziari, rappresentata dalla collaborazione con la giustizia, non costituisce un correttivo sufficiente.

La Corte di Strasburgo, respingendo la richiesta di referral alla Grande Chambre avanzata dal Governo italiano, ha reso definitiva la decisione del 13 giugno scorso sul caso dell'ergastolano "ostativo" Marcello Viola (Viola c./Italy (no. 2) ric. n. 77633/16), chiudendo - dal punto di vista della procedura di violazione europea contestata all'Italia - una vicenda che, toccando uno strumento da molti considerato essenziale per la lotta alla mafia, ha suscitato comprensibilmente vivaci reazioni.

La Corte europea dei diritti umani, ha dunque confermato l'accertamento della violazione da parte dell'Italia dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo sotto il profilo che la pena dell'ergastolo "ostativo" italiana, risolvendosi in una pena de iure e de facto "irriducibile" (cioè perpetuamente immodificabile), integra un trattamento contrario alla dignità della persona e al senso di umanità. Da questo punto di vista, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che l'unica possibilità prevista per gli ergastolani di accedere ai benefici penitenziari, rappresentata dalla collaborazione con la giustizia, non costituisca un correttivo sufficiente.

Come è noto, il caso portato al vaglio della Corte europea riguardava la situazione di Marcello Viola, condannato all'ergastolo per gravissimi delitti che rendevano tale pena "ostativa" alla concessione di qualunque beneficio penitenziario (salva la liberazione anticipata di 45 giorni a semestre, che tuttavia risultava priva di effetto pratico, non potendo il condannato aspirare a nessuna prospettiva di accesso a misure penitenziarie esterne).

Viola, detenuto in carcere ininterrottamente dal 1992, era stato condannato una prima volta a 12 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata dalla qualità di promotore e organizzatore, in un secondo processo era stato condannato alla pena dell'ergastolo, essendo stato ritenuto colpevole altresì dei reati di omicidio, con il riconoscimento delle aggravanti mafiose.

La pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Viola si è sempre proclamato innocente. Tra il 2000 e il 2006, Viola fu sottoposto al regime detentivo speciale di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario.

Nel dicembre 2005, il ministro della Giustizia emise un decreto con cui prorogava tale regime per un ulteriore anno ma, nel marzo del 2006, il Tribunale di sorveglianza, accogliendo il ricorso del detenuto, annullò tale decreto e da quel momento Viola fu ammesso al regime penitenziario ordinario e inserito nel circuito di "alta sicurezza", avendo dunque espiato 25 anni (di cui 6 al "41-bis").

Nel 2011 e nel 2013, da detenuto, ha formulato domanda di permesso premio, ricevendo una risposta negativa, mentre ha sempre ottenuto la liberazione anticipata.

Nel marzo 2015, Viola ha chiesto la liberazione condizionale al Tribunale di sorveglianza, confermando la professione di innocenza, la quale, a suo giudizio, impedisce la utile collaborazione con la giustizia, puntando a una pronuncia incidentale di inesigibilità della medesima.

Nell'istanza, il detenuto chiedeva, peraltro, al Tribunale di sorveglianza di sollevare questione di costituzionalità dell'articolo 4-bis, comma 1, dell'ordinamemto penitenziario per contrasto con la funzione rieducativa della pena (articolo 27, comma 3, della Costituzione) e per violazione dell'articolo 3 della Convenzione (assunto quale norma interposta ex articolo 117, comma 1, della Costituzione).

Il Tribunale di sorveglianza nel dichiarare inammissibile e infondata la questione di costituzionalità, respingeva l'istanza, ritenendo che la professione di innocenza non avesse rilievo nella fase esecutiva.

La Cassazione, adita su ricorso avverso la decisione del Tribunale di sorveglianza, si è pronunciata nel 2016 rigettando il ricorso e ritenendo, anch'essa, di non sollevare la questione di costituzionalità. A questo punto il Viola si rivolge alla Corte Edu, invocando la violazione di quattro articoli della Convenzione:

l'articolo 3: non aver collaborato con la giustizia ha comportato il mancato riesame della detenzione, tanto è vero che i giudici non hanno mai motivato nel merito il rigetto della condizionale;

l'articolo 5, § 4: la detenzione non è mai stata considerata "lawful" (legittima) sulla base di una valutazione nel merito;

l'articolo 6, § 2: il diritto al silenzio è una conseguenza della presunzione di innocenza;

l'articolo 8: l'obbligo di collaborare con la giustizia vìola l'integrità morale della persona e la pone in perenne conflitto con la propria coscienza.

La Corte di Strasburgo, con la sentenza del 13 giugno scorso, ha accolto il ricorso di Marcello Viola, rispondendo con altrettanti "no" ai quesiti sollevati dal ricorso come punti di contrasto dell'istituto italiano con l'articolo 3 della Cedu:

1) l'ergastolo "ostativo" è una pena de jure e de facto "riducibile" ai sensi dell'articolo 3 della Cedu?

2) l'ordinamento italiano offre al detenuto una concreta prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame della detenzione al fine di verificare se essa sia ancora giustificata da punto di vista penologico?

3) la possibilità di ridurre la pena perpetua solo tramite il meccanismo della collaborazione soddisfa i criteri stabiliti dalla giurisprudenza europea?

4) l'ergastolo "ostativo" consente la risocializzazione del condannato?

La risposta negativa a tutti i quesiti si fonda essenzialmente sul valore preminente assegnato dalla Convenzione europea alla protezione della dignità umana, tanto più rilevante laddove venga in rilievo la situazione di soggetti sottoposti a detenzione, nei cui confronti è più forte, rispetto agli altri consociati, la limitazione dei diritti soggettivi fondamentali. In questa ottica, la Corte alsaziana attinge alla propria elaborazione che già aveva parametrato al principio in esame la valutazione delle condizioni di detenzione applicate in alcuni Paesi membri, tra cui l'Italia (sentenza Torreggiani c. Italia, Ocalan c. Turchia, Varga c. Ungheria, etc. vedi riquadro).

La Corte Edu ha ritenuto che l'unica possibilità di accesso ai benefici penitenziari garantita, nel caso degli ergastolani "ostativi" italiani, soltanto dalla collaborazione con la giustizia di cui all'articolo 58-ter della legge 354/1975, costituisca una limitazione eccessiva alla prospettiva di recupero della libertà per il condannato.

2) l'ordinamento italiano offre al detenuto una concreta prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame della detenzione al fine di verificare se essa sia ancora giustificata da punto di vista penologico?

3) la possibilità di ridurre la pena perpetua solo tramite il meccanismo della collaborazione soddisfa i criteri stabiliti dalla giurisprudenza europea?

4) l'ergastolo "ostativo" consente la risocializzazione del condannato?

La risposta negativa a tutti i quesiti si fonda essenzialmente sul valore preminente assegnato dalla Convenzione europea alla protezione della dignità umana, tanto più rilevante laddove venga in rilievo la situazione di soggetti sottoposti a detenzione, nei cui confronti è più forte, rispetto agli altri consociati, la limitazione dei diritti soggettivi fondamentali. In questa ottica, la Corte alsaziana attinge alla propria elaborazione che già aveva parametrato al principio in esame la valutazione delle condizioni di detenzione applicate in alcuni Paesi membri, tra cui l'Italia (sentenza Torreggiani c. Italia, Ocalan c. Turchia, Varga c. Ungheria, etc.).

L'iter argomentativo seguito dal panel europeo parte dalla premessa che la collaborazione con la giustizia integra una manifestazione significativa di dissociazione con il sodalizio criminale di appartenenza interrogandosi, tuttavia, sullo snodo centrale della questione: "se l'equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell'interessato e la possibilità per quest'ultimo di chiedere il riesame della sua pena".

In altri termini, la Cedu ha preso in esame la legittimità convenzionale della scelta di politica legislativa che ha elevato, nel sistema penitenziario italiano, la collaborazione con la giustizia a indice legale di avvenuto ravvedimento del condannato, cristallizzando su tale assunto una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto a meno che quest'ultimo non dimostri vincibile solo per facta concludentia (attraverso, appunto, la collaborazione con la giustizia) il proprio distacco dalla cosca mafiosa.

La Corte ha dubitato che la prestazione della collaborazione con la giustizia possa rappresentare, in tutti i casi, una scelta individuale veramente libera e consapevole; per contro, la mancata collaborazione non sempre è indice di pericolosità sociale, dato che il silenzio mantenuto dal condannato potrebbe essere dipeso da valutazioni che nulla hanno a che vedere con la perdurante appartenenza mafiosa (ad esempio, il rischio di ritorsioni che il collaborante affronta per sé e per i propri familiari, la intima convinzione della propria innocenza, il rifiuto di accusare altri, facendo andare in carcere altre persone al posto proprio, il ripudio morale di accusare persone spesso legate all'interessato da stretti rapporti di amicizia o parentela, e così via).

Ne deriva, ad avviso dei giudici europei, che non può aversi equazione tra il rifiuto della collaborazione e la diagnosi di persistente collegamento del condannato con i sodali, quantomeno nei termini di una presunzione assoluta e non superabile da parte della valutazione del giudice, neppure nei casi di evidenti progressioni positive nel trattamento penitenziario e addirittura nell'ipotesi di aperta "dissociazione" del soggetto dalla consorteria mafiosa.

La Corte europea ha quindi osservato che il sistema penitenziario italiano è impostato su una logica di progressione trattamentale che offre una serie di graduali occasioni di contatto con la società - che vanno dal lavoro all'esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà - ma rileva altresì che tale prospettiva, nel caso di assenza di collaborazione con la giustizia fa scattare una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha come effetto quello di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione.

Qualsiasi cosa faccia in carcere, infatti, l'ergastolano ostativo vede la sua pena restare immutabile e senza alcuna speranza di cambiamento. Tale situazione indotta dalla sussistenza di una presunzione legale assoluta contrasta con i principi convenzionali (e costituzionali): "una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare, quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria" e ciò vale, tanto più - rammenta la Corte Edu - nel caso in cui si prenda in considerazione il principio di cui all'articolo 3 della Cedu, che non ammette accezione alcuna al divieto di tortura e di trattamenti e di pene inumane e degradanti, neppure nelle situazioni più gravi e persino nel caso in cui in gioco ci sia la sopravvivenza stessa dello Stato.

L'ergastolo perpetuo e irriducibile, fondato su una presunzione di pericolosità nascente dall'assenza di collaborazione con la giustizia integra pertanto - così hanno statuito i giudici di Strasburgo - una pena de facto irriducibile, non potendo essere riesaminata nel merito, sulla base di altri elementi che possano provare il ravvedimento e la progressione trattamentale del condannato.

L'irriducibilità della pena risulta in flagrante contrasto con il principio di tutela della dignità umana protetta dalla Convenzione che "impedisce di privare una persona della libertà con la costrizione senza operare, al contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà" (Cedu, sentenza Viola c. Italia, § 113).

 

*Magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Venezia