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di Gigi Di Fiore


Il Mattino, 22 ottobre 2019

 

Procuratore aggiunto alla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Russo è il numero due dell'ufficio guidato da Federico Cafiero de Raho.

 

Procuratore Russo, con la sentenza prevista per oggi della Corte costituzionale in aggiunta alla decisione della corte di Strasburgo, si rimette in discussione il sistema detentivo per i mafiosi?

"No, ma sicuramente si è avviato un confronto tra giuristi e in Parlamento per rendere compatibile il nostro sistema detentivo per i mafiosi con quanto invita a fare la corte di Strasburgo. Vedremo, poi, su una questione collegata ma diversa, cosa deciderà la Corte costituzionale".

 

Su quali idee si muove il confronto giuridico e normativo?

"Sul concetto del ravvedimento del detenuto, da verificare in concreto, attraverso il trattamento carcerario. L'idea che si afferma è che il carcere può essere strumento di riabilitazione per qualsiasi tipologia di detenuto, ma questo va valutato in concreto".

 

Un passo indietro rispetto al sistema normativo antimafia?

"Certamente no, l'impianto non si mette in discussione. La pericolosità di un affiliato di mafia viene affermata dal sistema detentivo del 41bis e da altre restrizioni. Quello che si discute, dopo la sentenza di Strasburgo, è se si possono applicare benefici a un condannato per mafia".

 

La risposta quale può essere?

"Se dobbiamo seguire l'invito della Grande Camera di Strasburgo, l'unica strada è dare ai giudici di sorveglianza la discrezionalità di valutare l'effettivo ravvedimento del detenuto. Giudicare caso per caso, su elementi concreti e con particolare scrupolo quando si tratta di detenuti che hanno avuto posizioni di vertice e di pericolosità nelle organizzazioni mafiose".

 

Un criterio che sostituisce la decisione del giudice di sorveglianza alla collaborazione con la giustizia considerato oggi unico elemento oggettivo di ravvedimento per i mafiosi?

"Proprio così, su questa ipotesi discutono diversi giuristi. Naturalmente, non si deve trattare di un ravvedimento furbesco, non devono esserci più contatti con l'organizzazione, né prove di capacità direttive odi influenza del detenuto nei confronti degli affiliati ancora in libertà".

 

Insomma, dovrebbe attuarsi una valutazione non più automatica, come è ora la collaborazione con la giustizia?

"E così. Bisognerà capire se la pena ha svolto il suo compito, se la rieducazione ha portato a un ravvedimento reale che abbia trasformato il detenuto e ne abbia inficiato la pericolosità. Un ritorno alla centralità della valutazione del giudice di sorveglianza e alla decisione concreta caso per caso. Ma, naturalmente, senza toccare l'impianto della normativa antimafia".