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di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 21 ottobre 2019

 

Domani la Corte Costituzionale deciderà sull'ergastolo ostativo, che a mafiosi e terroristi impedisce anche solo di chiedere misure alternative. C'è di nuovo chi - come e quasi più di Berlusconi nel suo ventennio - sta sfiduciando i magistrati, vuole legare le mani ai giudici, e pretende di azzerarne la discrezionalità imprigionandola nelle gabbie di inderogabili automatismi dettati da rigide presunzioni legali di immutabilità: solo che quel "qualcuno" non è più il leader politico di turno, insofferente al controllo di legalità, ma paradossalmente sono proprio i magistrati.

O, almeno, quella schiera per lo più di pm (in carica, in pensione, datisi alla politica o prestati ad altre amministrazioni) che, meglio accolti dal circuito mediatico-sociale in virtù dei crediti acquisiti con le proprie valorose indagini, da un mese stanno (come e più di politici quali Alfonso Bonafede e Matteo Salvini) sventagliando sui giornali e in tv una formidabile contraerea preventiva all'udienza di domani dei giudici della Corte Costituzionale: chiamata dalla Cassazione a decidere la norma che a ergastolani mafiosi o terroristi impedisce (salvo collaborino o la collaborazione sia impossibile) di poter dopo molti anni anche solo domandare ai Tribunali di Sorveglianza di valutare richieste di misure alternative contrasti o meno con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.

E cioè se far discendere dalla collaborazione con la giustizia la prova legale della cessata pericolosità sociale del condannato impedisca alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l'evoluzione personale del detenuto, e vanifichi così la finalità rieducativa della pena. Tema confinante con quello affrontato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo prima il 13 giugno e poi l'8 ottobre, quando la Cedu ha ritenuto che l'ostatività dell'ergastolo, se agganciata alla mancata collaborazione, violi il divieto di "trattamenti inumani o degradanti"; che la collaborazione non sia (come peraltro sperimentato nell'opportunismo di parecchi condannati) di per sé prova automatica della cessata pericolosità; e che l'Italia debba quindi modificare la norma.

Tra le istruttive munizioni argomentative sciorinate appunto dagli scandalizzati dal verdetto della Cedu in vista di quello della Consulta, spicca l'uso cinico del morto. Non soltanto l'uso avvoltoiesco del dolore di molti parenti delle vittime, fingendo di dimenticare che altrettanti familiari spieghino invece, pur con pari dignità di sofferenza, di non sentirsi vendicati o risarciti dall'ergastolo ostativo. Ma anche l'appropriazione indebita (e talvolta usurpata) dell'"ipse dixit" di assassinati illustri, secondo diverse sfumature di strumentalità che dal "Così si cancella un caposaldo di Falcone" approdano sino al più disinvolto "Hanno riammazzato Falcone e Borsellino", titolo di una prima pagina sotto la faccia dei giudici di Strasburgo tacciati di "non sapere cosa sia la mafia" e di "armare di nuovo i boss".

Poi c'è il classico ricatto del "così si demolisce la lotta alla mafia" e "si esaudisce una delle richieste di Riina nel papello", giacché la sola prospettiva teorica di poter non morire in carcere rilegittimerebbe il comando dei boss dal carcere: tesi contraddittoria in quanti, per motivare il no alla scarcerazione di Provenzano morente, argomentavano che proprio dall'ergastolo al 41 bis continuasse a esercitare il proprio ruolo.

Neppure si teme il ridicolo di spargere terrorismo psicologico con l'allarme che "rischino di uscire mille ergastolani". Pura mistificazione, perché la decisione della Consulta, come quella della Corte europea dei diritti dell'uomo, non solo non libererebbe i 1.106 ergastolani ostativi (sui 1.633 ergastolani definitivi), ma soprattutto consentirebbe soltanto che siano sempre e comunque i giudici dei Tribunali di Sorveglianza a poter valutare, caso per caso, il percorso rieducativo e la rescissione dei legami con la criminalità prospettati dai condannati dopo molti anni di carcere: esame individualizzato sulla scorta anche dei pareri delle Procure Antimafia, e nel quale è immaginabile che la mancata collaborazione continuerebbe a pesare in partenza come indice tendenzialmente negativo.

Ma proprio qui si coglie il nervo scoperto di una parte di magistratura che, sotto la postura muscolare che inscena, in realtà tradisce una inaspettata fragilità, cercando nelle preclusioni automatiche e nelle rigide presunzioni di permanente pericolosità una "coperta di Linus" con la quale difendersi dal rischio di dover decidere, dalla complessità di dover fare una prognosi sul cambiamento o meno di una persona in carcere, dal travaglio di doversi assumere una responsabilità.

Con l'unica attenuante, va riconosciuto, di vedersi poi pregiudizialmente massacrare dalla politica e dai mass media quella dolorosa volta (pur statisticamente infrequente) in cui a ricommettere un grave reato sia proprio un detenuto ammesso a qualche beneficio. Ma anche con l'aggravante "culturale" di alimentare inconsapevolmente, di automatismo in automatismo, quell'eterogeneo frullatore nel quale (si tratti di ostatività dell'ergastolo, di difesa "sempre" legittima in casa, o di sorteggio al Csm contro le nomine egemonizzate dalle degenerazioni correntizie) l'ingrediente-base è ormai l'abdicare alla funzione del magistrato, barattata con una qualche polizza di rassicurazione.