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di Nunzio Smacchia*

 

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 17 ottobre 2019

 

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha definitivamente bocciato l'ergastolo ostativo, perché è in contrasto con l'art. 3 della convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti disumani e degradanti. La sentenza critica quella parte in cui il detenuto condannato per reati di mafia non possa accedere ai benefici di legge come tutti gli altri ergastolani, perché ha deciso di non collaborare con la giustizia, non si pente e non rinnega la sua appartenenza al credo mafioso.

La statuizione di Strasburgo sottolinea che il "mancato pentimento" non significhi che il condannato sia ancora legato alle organizzazioni criminali e che costituisca una minaccia per la società, in quanto questa volontà di non dissociarsi può dipendere da tanti fattori, non ultimo quello di preservare l'incolumità dei parenti.

Da questa decisione europea si è riacceso il dibattito sulla costituzionalità dell'ergastolo, sulla necessità di inserirne l'abolizione in un complessivo progetto di ricalibratura di tutte le pene all'interno del sistema penale. Si sostiene che il recluso vive un tempo totale che diviene inesistente e che l'esperienza carceraria è profondamente disocializzante, perché il periodo che trascorre all'interno dell'istituzione carceraria porta all'autoannullamento, a una implosione autodistruttiva degli spazi di autonomia, che si traducono in estraniazione e allontanamento dai margini della socializzazione.

In realtà, l'ergastolo, è una pena di morte rinviata sine die e affidata alla sua esecuzione, anziché alla mannaia di un boia, alla natura umana; da qui la sua intrinseca incostituzionalità. Solo con un forte e deciso sviluppo della cultura giuridica e democratica è possibile, da un lato, un'interpretazione più autentica e più rispettosa del dettato costituzionale, dall'altro, è auspicabile una revisione della Carta costituzionale, per dare una risposta alla crescente richiesta di sicurezza e all'inflessibile difesa delle garanzie.

E questo processo di riesame, o di riscrittura, deve attuarsi tenendo ben presente che nessun individuo può essere sottoposto a punizioni crudeli, inumane o degradanti, che ripugnano alla coscienza civile e al senso di umanità di ogni persona e che, addirittura, possono non costituire un efficace deterrente al crimine ed essere scambiate, al contrario, per una manifestazione di brutalità dello Stato. L'ergastolo è un'idea di pena del tutto dissonante rispetto ai principi della legalità costituzionale. Certo, è un tema non facile quello del consenso sociale nei confronti dell'ergastolo; difficile come ogni riflessione che cerchi di coniugare un sentire comune, sociale, e un garantismo giuridico.

Con la pena perpetua si tocca l'aspetto della vita e della speranza, senza le quali si muore anzitempo in una fissità che non concede prospettive, che cala sui destini, esclude ogni possibilità di recupero e rende immobile la vita, sottraendola a ogni opportunità di cambiamento; l'ergastolo è peggiore della morte, perché più molesto, più duro e più lungo da scontare, e la pena viene rateizzata nel tempo: è lo spettacolo dell'agonia della persona.

La pena ultima deve essere ripensata da un punto di vista antropologico, oltreché giuridico in senso stretto. Nella discussione su questo tipo di pena bisogna considerare, preliminarmente, che è una punizione che elimina una persona dal consorzio umano, la cancella definitivamente; in sostanza, lo Stato non può sopprimere la libertà di un uomo: può limitarla, ma non abolirla. Sotto il profilo costituzionale ed etico-politico quattro sono i profili che contrastano con il paradigma dello Stato democratico.

1) La violazione dell'art. 27 della Costituzione, laddove viola il principio della "dignità" del cittadino sancito dall'art. 3 della stessa Costituzione. 2) Il contrasto sempre con l'articolo 27, terzo comma della Costituzione, secondo cui le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato"; si negherebbe il recupero sociale nel processo d'interazione e di autodeterminazione nella vita sociale. 3) L'inosservanza del principio di uguaglianza; avverrebbe una pesante discriminazione tra ergastolani, nel senso che alcuni sono ammessi e altri no al beneficio della liberazione condizionale e agli altri vantaggi previsti dalla legge Gozzini. 4) La contraddizione con il principio della giurisdizionalità delle pene, il quale esclude pene fisse, non graduabili sulla base della valutazione del caso concreto.

In aggiunta a queste osservazioni di natura esclusivamente giuridica, ci sono anche quelle di tipo umano, che fanno della detenzione perpetua una pena da ristudiare, perché ammazza, lasciando vivere, spegne la luce non solo dello spirito, ma anche della libertà; è essenzialmente una condanna di morte dissimulata, affidata non più alla mano di un giustiziere, ma al decorso del tempo; è un castigo disumano che fa morire la persona lasciandola in vita, togliendole le aspettative e i sogni. È un retaggio ancora di una mentalità forcaiola e somiglia molto all'isolamento, alla segregazione e ai lavori forzati, o ad altre forme di tortura tuttora esistenti in alcune società avanzate.

Alla morte si guarda con la dolcezza di una vita "migliore", all'ergastolo ci si lega per tutta l'esistenza. Chiedere uno sconto di pena è come pretendere una fetta di vita: ci si allontana dai sentimenti e dalla realtà e si muore lentamente, pur vivendo. È la condanna a un destino, non a una pena o a una colpa. È la rappresentazione dell'immutabilità, del rifiuto di un dialogo, dello spezzarsi di quel sottile filo che lo lega alla società e di ogni illusione che si perde nel mare della persuasione che viene negata. È la consapevolezza terribile di non poter più avere un'esistenza, l'esclusione da un progetto d'integrazione solidaristico e non violento. Se il trasgressore vuole dimenticare e redimersi, con l'ergastolo non lo potrà più fare.

*Criminologo