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di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani


Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019

 

Il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale è chiamata a decidere di nuovo sulla legittimità dell'istituto. In attesa della decisione, apriamo il dibattito invitando al confronto studiosi e operatori della diritto. Il tema dell'ergastolo ostativo nei giorni scorsi è passato dall'occupare solo le pagine delle riviste giuridiche a trovare spazio anche sulle pagine della stampa quotidiana.

Lo spunto è stato dato il 7 ottobre dalla Grande Camera della Corte europea, che ha respinto il ricorso del governo italiano contro la decisione del 13 giugno scorso con cui la Prima Sezione (caso Marcello Viola c. Italia n°2) aveva accertato la violazione della dignità umana, desumibile dall'art. 3 Cedu dell'ergastolo ostativo in quanto esso "limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell'interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione".

Il ricorso era stato presentato da un ergastolano ostativo a cui i giudici nazionali avevano rifiutato la misura della liberazione condizionale per la mancata collaborazione con la giustizia, ritenuta possibile e rilevante nel caso di specie, benché quest'ultimo si professasse da sempre innocente.

Come noto, nel nostro ordinamento l'ergastolo è la sanzione detentiva perpetua, ovvero la galera a vita. Tuttavia, nel tempo sono state introdotte disposizioni premiali grazie alle quali il condannato meritevole può usufruire di benefici. Dopo 10 anni può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Termini, questi, che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario. Così, ad esempio, i 26 anni per la libertà condizionale possono ridursi a 21.

Tali benefici sono stati introdotti poiché, per l'art. 27 della Costituzione, tutte le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". È poi noto che i reati diminuiscono e la recidiva cala se le pene non sono draconiane ma certe e, soprattutto, se vi sono seri percorsi di risocializzazione.

Quando però l'ergastolo viene irrogato essenzialmente per delitti di criminalità organizzata o terrorismo, una norma introdotta nel 1992, poco dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, prevede che i benefici penitenziari siano possibili solo qualora il condannato collabori con la giustizia oppure dimostri di non poterlo fare, perché ad esempio poco o nulla sa.

Questo istituto non è stato soltanto oggetto di un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ma di numerose pronunce della Corte Costituzionale. Quest'ultima, con decisioni successive, aveva stabilito che la limitazione ai benefici è legittima soltanto in presenza di una collaborazione possibile, che il reo liberamente rifiuta. Non può quindi essere escluso chi fornirebbe una collaborazione inutile, impossibile e irrilevante. Il legislatore ha fatto propria la posizione della Corte introducendo il comma 1-bis dell'art. 4-bis, ord. penit., in base al quale la concessione dei benefici penitenziari può essere negata solo in presenza del rifiuto di una collaborazione esigibile.

Ora, il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale è chiamata a decidere di nuovo sulla legittimità dell'istituto, in particolare del negato accesso al beneficio penitenziario del permesso premio per il condannato all'ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia, benché il detenuto abbia sempre tenuto negli anni di reclusione un comportamento rispettoso del programma trattamentale.

La Corte dovrà giudicare se la scelta del legislatore di perseguire con tale istituto un interesse di indubbio rilievo costituzionale quale la lotta al crimine, specie associativo, sia compatibile con i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento (art. 27 Cost) e al canone della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Ma tali questioni interrogano più in generale il rapporto tra Stato e reo e il principio personalista inciso nell'articolo 2 della Costituzione.

Ci pare dunque questo un buon momento per aprire un dibattito sull'istituto dell'ergastolo ostativo, sperando di poter poi, più in generale, estendere la discussione a quella tendenza del nostro ordinamento a escludere appunto alcune categorie di rei, ritenuti socialmente pericolosi (da ultimo, quelli che hanno commesso reati contro la pubblica amministrazione), dai benefici penitenziari, sol perché decidono di non collaborare con la giustizia.

Di qui alcune domande che abbiamo posto a studiosi e operatori della diritto che negli anni si sono confrontati con questo tema così denso e delicato.

1) Cos'è l'ergastolo ostativo, come nasce e a che cosa è servito? È ancora necessario per contrastare la criminalità organizzata e il terrorismo?

2)Quale influenza può produrre la sentenza Viola sulla imminente decisione della Corte costituzionale? Quali le analogie e le differenze tra i due casi?

3) Quale è il nodo centrale relativamente all'ergastolo ostativo: l'equazione tra mancata collaborazione e presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato; la violazione della dignità umana; la violazione del principio rieducativo, la pena dell'ergastolo in sé? Esistono sistemi alternativi alla collaborazione per dimostrare quel percorso di reinserimento, che giustifica i benefici? E come si collegano le questioni relative all'ergastolo ostativo con la previsione di altri reati, meno gravi, per i quali il legislatore ha introdotto analoghe previsioni ostative rispetto ai benefici penitenziari (es. con la legge "spazza-corrotti")?

4) Perché il tema dell'ergastolo ostativo divide così profondamente la comunità degli studiosi, quasi unanimemente orientata a ritenere l'istituto di dubbia costituzionalità, e una buona parte della magistratura impegnata nel contrasto alla criminalità organizzata, che prospetta conseguenze disastrose dalla pronuncia della corte di Strasburgo e, ancor più, da una eventuale sentenza di accoglimento della Corte costituzionale?

5) Quali potrebbero essere le conseguenze sul piano pratico di una sentenza che accogliesse le questioni sollevate? Sono fondate le obiezioni di chi ritiene che i giudici di sorveglianza potrebbero subire minacce e pressioni qualora i divieti assoluti fossero cancellati?