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di Mauro Palma*


Il Dubbio, 9 ottobre 2019

 

La decisione della Cedu di non rinviare alla Grande Camera, per rivederla, la sentenza Viola, presa alcuni mesi fa, non mi stupisce affatto, perché di solito vengono rinviate quelle sentenze che toccano elementi di principio generale che possono riguardare tutti gli Stati.

Il principio generale, in questo caso relativo all'ergastolo ostativo, è stato fornito molto tempo fa dalla Corte, quando ha affermato che non può esserci una detenzione a vita senza che ci sia la speranza. I principi particolari riguardano il singolo Stato e servono per capire se il meccanismo in atto è in grado o meno di fornire quell'elemento di speranza.

E nello specifico, quello che ci dice la sentenza Viola è che il nostro sistema non è in grado di fornire quell'elemento che consente la revisione, dopo moltissimi anni, della pericolosità della persona costretta all'ergastolo ostativo. In qualche modo era presumibile che la questione non andasse alla Grande Camera, in quanto la sentenza Viola era stata presa da sette giudici, con un risultato di sei a uno, compreso il voto del giudice italiano. In queste ore molti si dicono allarmati per questa decisione, ma io non vedo nessun dramma. Mi sembra, piuttosto, che ci sia uno sbaglio interpretativo.

Prima di tutto va chiarito che non succede assolutamente nulla, in quanto la Corte afferma che un giudice può valutare, dopo un congruo numero di anni, il comportamento della persona all'ergastolo e la sua pericolosità, ad esempio di tipo mafioso, per stabilire se può o meno godere di qualche privilegio. Neanche per il signor Viola, ad esempio, c'è una qualche forma di automatismo: rimane in carcere. Quella della Corte è un'affermazione, ma ciò non implica, in automatico, una scarcerazione del signor Viola.

Credo, perciò, ci sia stata una cattiva interpretazione di tipo allarmante, mentre bisogna ricordare che si tratta solo dell'affermazione di un principio. Il giudice, in ogni caso, deve poter considerare la persona e la sua pericolosità dopo un numero alto di anni di prigione. Dopodiché potrà stabilire, se ce n'è bisogno, anche di non concedere alcun beneficio. Sento dire che dopo tale decisione la lotta alla mafia rischia di essere smantellata, ma non si sta smantellando un bel niente: ridare la possibilità di giudicare una persona dopo 26 anni non toglie nulla alla necessaria lotta alle organizzazioni criminali, che deve rimanere ferma, senza retrocedere di un millimetro, né introduce strani automatismi liberatori.

Tanto meno c'entra nulla con il 41bis, come qualcuno ha detto, perché l'ostatività riguarda alcuni detenuti al carcere duro ma anche altri che ne sono fuori. Il 41bis, invece, riguarda un'altra vicenda, ovvero la doverosa interruzione dei legami comunicativi con l'organizzazione di appartenenza. La decisione, in definitiva, dà corpo alla finalità rieducativa dell'articolo 27 della Costituzione. Se la rieducazione prevista da questo articolo ha effettivamente avuto i suoi effetti, il giudice può allora effettivamente stabilire delle forme di liberazione condizionale dopo un certo numero di anni. Si dà consistenza, dunque, al principio della rieducazione, che è una finalità costituzionale della pena che vale per tutti.

La chance va data e anche se le organizzazioni criminali hanno carattere di eccezionalità, i principi stabiliti dalla Costituzione sono erga omnes. Ho sentito anche tirare in ballo Giovanni Falcone, ma per rispetto al suo pensiero eviterei di farlo. Ho letto parole su ciò che lui voleva o non voleva, ma bisogna ricordare che ciò che ha testimoniato è la necessità di avere una strategia rispetto alla lotta contro le organizzazioni criminali e che tale strategia sia forte. Gli strumenti sono storicamente determinati, momento per momento.

D'altronde le stesse organizzazioni evolvono, ahimè, nelle loro forme. Il punto irrinunciabile della strategia di Falcone, invece, è quello di dire che le organizzazione mafiose richiedono un pensiero complessivo, da mettere in campo con fermezza, e quello rimane solido. Rispetto alle sentenze mi misuro sempre sulla loro ragionevolezza e utilità sociale. Non va pensata come la decisione di un normale processo: le sentenze di Strasburgo sono di indicazione e quella relativa al caso Viola è ragionevole. Spetta poi al legislatore nazionale saperla utilizzare. Si può continuare a combattere le mafie rispettando i diritti umani, anzi, si deve. I diritti umani hanno sempre una dimensione sociale generale. Uno Stato permissivo rispetto alla sua lotta per le mafie non tutela i diritti umani delle persone, così come uno Stato che non tutela i diritti umani, anche di chi è mafioso, è debole nella lotta alle mafie.

 

*Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale