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di Luca Rocca


Il Tempo, 7 ottobre 2019

 

È attesa per oggi la sentenza con la quale la "Grande Camera" della Corte europea dei diritti dell'uomo si pronuncerà sull'ergastolo ostativo, più comunemente noto come "fine pena mai", che prevede per chi è condannato al carcere a vita per reati di mafia o di terrorismo (ma non solo), e non collabora con la giustizia, l'esclusione dei benefìci penitenziari previsti, quali riduzioni di pena, libertà condizionale.

Una decisione, quella a cui è chiamata la "Grande Chambre", che è diretta conseguenza della sentenza con la quale nel giugno scorso la Cedu, pronunciandosi sul ricorso di un ergastolano mafioso e omicida mai pentitosi, Marcello Viola, ha chiesto all'Italia di rivedere il "fine pena mai" perché contrario all'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, quello che vieta i trattamenti inumani e degradanti.

Per la Corte europea, infatti, "la mancanza di collaborazione è equiparata ad una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società", e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo.

Affermazioni che non hanno lasciato indifferente il governo italiano, che ha presentato ricorso affermando che la mafia è una minaccia per la sicurezza italiana, europea ed internazionale, e che la conformità del carcere ostativo ai principi costituzionali è stata confermata più volte dalla Consulta. La preoccupazione è che colpendo giuridicamente il carcere ostativo, i 957 ergastolani condannati per crimini di mafia (ma non solo loro) possano non solo ottenere benefici di legge ma anche chiedere i risarcimenti.

Una possibilità che ha indotto più di un magistrato a prendere posizione. Per Nino Di Matteo, oggi alla Procura nazionale antimafia, l'eliminazione del "fine pena mai" rischia "di far realizzare alle organizzazioni mafiose un obiettivo per loro fondamentale", cioè "un passo indietro complessivo nel sistema di contrasto alle organizzazioni criminali".

Chi conosce "storicamente Cosa nostra", ha aggiunto il pm, "sa bene che l'unica vera preoccupazione per i mafiosi è proprio l'ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici".

Ma la pronuncia della Cedu ha scatenato anche le reazioni del big del Movimento 5 Stelle. Per Luigi di Maio, ad esempio, "c'è il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche boss mafiosi e terroristi" e la possibilità di "una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti", mentre per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, "l'ergastolo ostativo rappresenta un caposaldo della lotta alia mafia e ai terrorismo", ragion per cui un mancato accoglimento del ricorso avrebbe conseguenze sulle "politiche antimafia e antiterrorismo italiane e sarebbe un errore gravissimo".

Sulla stessa linea Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia: "Se i boss sperano ora di uscire dal carcere, addirittura potendo far causa allo Stato italiano per ingiusta detenzione, è perché l'Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie, salvo poi sdegnarsi quando queste "eccedono" al di fuori dei confini italici, come avvenne per la strage di Duishurg operata dalla 'ndrangheta in terra tedesca".

Posizione opposta quella dell'Associazione Antigone, che subito dopo la sentenza della Cedu ha dichiarato che "la dignità umana è un bene che non si perde mai", spiegando che "la Corte ha ribadito un principio che i più grandi giuristi italiani avevano già espresso, ossia che sono inaccettabili gli automatismi (assenza di collaborazione) che precludono l'accesso ai benefici", in quanto "una persona che dia prova di partecipazione all'opera di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà".

Infine, chiara anche la presa di posizione della Giunta dell'Unione camere penali, secondo cui la sentenza della Cedu ha demolito il sistema del "diritto penale del nemico", e bene ha fatto, in quanto "in Italia esista una Costituzione che esprime principi, valori e diritti irrinunciabili come quello consacrato nell'articolo 27, secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".