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di Gian Carlo Caselli*


Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019

 

Il 13 giugno la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha accolto un ricorso contro l'ergastolo "ostativo". Tutti gli ergastolani, anche i mafiosi al 41bis in quanto "irriducibili", potrebbero così fruire di benefici come lavoro esterno, permessi premio o misure alternative. Di fatto sarebbero messi in condizione di poter facilmente fuggire, recuperando piena libertà di azione criminale.

L'ultima parola spetta ancora alla Grande Chambre. Sinceramente, spero che gli autorevoli giuristi che la compongono decidano non in vitro, ma immergendosi nella realtà concreta della mafia. Calzando i mocassini delle persone interessate prima di giudicarle, come i pellerossa invocavano da Manitou.

Emergerebbe così un primo dato, storicamente e culturalmente certo, confermato da tutte le esperienze giudiziarie (su Cosa nostra in particolare). La qualità di "uomo d'onore", una volta acquisita, cessa soltanto con la morte. Anche se si trasferisce in luoghi lontani, e quindi non viene impiegato attivamente negli affari della sua "famiglia", l'affiliato deve sempre essere disponibile a soddisfare qualunque richiesta dell'organizzazione.

Ciò perché (come dimostrano studiosi tra i più qualificati) il modello culturale del comportamento mafioso si manifesta come dipendenza assoluta dell'individuo dal "clan". Dipendenza che funziona come una "cintura di sicurezza" capace di fornire protezione; e come un apparato ideologico che dà un senso di "appartenenza" ed è garanzia di segretezza, coesione e forza.

In sostanza, il mafioso viene educato a sentirsi e divenire un "suddito", attraverso una duplice equazione: da un lato "individuo = debolezza-fragilità-soccombenza"; dall'altro: "gruppo = forza-potere-status" (così gli psicologi e psicoterapeuti che hanno analizzato la "identità mafiosa"). Questa duplice equazione ha storicamente trovato un preciso e concreto riscontro proprio negli effetti dell'articolo 41bis.

La norma venne introdotta con la specifica finalità di interrompere le comunicazioni (prima scandalosamente facili) dei mafiosi detenuti fra loro e con l'esterno, e dunque la possibilità di decidere e organizzare ancora delitti, sia dentro che fuori del carcere. La sua applicazione ebbe però un importante effetto "aggiuntivo": l'isolamento materiale e psicologico mediante la brusca privazione del sostegno informativo e assistenziale dell'organizzazione (la "forza del gruppo"). Col risultato che vi fu una massiccia "diserzione" da Cosa nostra di mafiosi detenuti che scelsero di collaborare con lo Stato.

E la perniciosa interazione tra 41bis e pentitismo non sfuggì di certo al "capo dei capi", Totò Riina, che la commentò dicendo che si sarebbe "giocato anche i denti" per far annullare la legge sui pentiti e l'articolo 41bis. Un riscontro della evidente peculiarità della "identità mafiosa" è dato poi da alcune costanti che si riscontrano nella psicologia dei killer.

Da un lato, la totale immedesimazione con il collettivo Cosa Nostra, vissuto come l'unico mondo in cui vi siano individui degni di essere riconosciuti come "persone". E nel contempo la rappresentazione del mondo esterno come una realtà "nemica", oggetto di predazione, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, che non hanno dignità di persone, quasi fossero oggetti disumanizzati.

Di qui la comprovata, assoluta mancanza di senso di colpa da parte dei killer, convinti di appartenere a una entità speciale, con un totale distacco emotivo che disattiva la sfera dei sentimenti. Un distacco che emerge dallo stesso linguaggio usato, dove - per fare un esempio - l'informazione giusta per localizzare la vittima si chiama "avere la battuta", termine che richiama la caccia: caccia di persone considerate alla stregua di viventi non umani.

Quanto meno con fortissime e tremende probabilità, stravolgere l'ergastolo ostativo, per i mafiosi che pentendosi non hanno spezzato le catene che li vincolano in perpetuo al clan, equivarrebbe quindi (ontologicamente!) ad armarli di nuovo, inceppando nel contempo lo schema che facilita le collaborazioni. Un pericolo concreto per l'Italia e un rischio che l'Europa (stante la penetrazione della mafia ovunque) non si può permettere. Se non a prezzo di una "dimissione dalla realtà" che causerebbe un pernicioso "summum ius, summa iniuria".

 

*Già procuratore di Torino e Palermo