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di Antonella Mascali


Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019

 

Intervista a Sebastiano Ardita, ex dirigente dell'amministrazione penitenziaria. Sebastiano Ardita attualmente è consigliere del Csm, fino all'anno scorso era procuratore aggiunto di Catania. Pm antimafia e anti corruzione, è un conoscitore del mondo delle carceri: è stato direttore generale dell'Ufficio detenuti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap).

 

Quanto conta per Cosa Nostra, per la 'ndrangheta e per le altre mafie ottenere la fine dell'ergastolo ostativo?

Ne va della sopravvivenza del sistema mafioso tradizionale, che ha patito la crisi più grave in conseguenza della reazione dello Stato dopo le stragi del 1992-93. Ma sarebbe il successo più importante - non so quanto voluto in termini di risultato - della nuova mafia silente, impegnata a reinvestire nell'economia più che nelle azioni criminali visibili. Attenuatasi la paura di nuove stragi, l'effetto potrebbe essere quello del ritorno in libertà di alcuni boss irriducibili. È facile immaginare che tornerebbero a guidare compagini che avevano deciso di abbandonare i sistemi tradizionali, in qualche caso disinteressandosi di chi stava sepolto dagli ergastoli e dal carcere duro, il 41bis. Non è facile prevedere cosa potrebbe accadere sul territorio.

 

Dall'osservatorio "privilegiato" del Dap cosa ha appreso rispetto al sentire dei capimafia ergastolani e al 41 bis?

Che questi temi sono seguiti con grande interesse da coloro che rappresentano l'unico vero vertice di Cosa nostra e che attualmente sono pressoché tutti detenuti. E mi sembra evidente che, dal loro punto di vista, trent'anni senza stragi cominciano a provocare i primi effetti sulla sensibilità della opinione pubblica. Quindi sperano o credono che ora ci sia spazio per ottenere benefici.

 

C'è chi pensa sia inaccettabile il "fine pena mai"...

Ma stiamo riferendoci alle associazioni di tipo mafioso, dove i singoli operano nel quadro di compagini organizzate che pianificano delitti - anche se non necessariamente di sangue. È rischioso confondere questo tema con quello della rieducazione di condannati, anche a pene severe, che però non operano all'interno della criminalità organizzata. Il mafioso militante, una volta uscito dal carcere, dovrà tornare a servire l'organizzazione fino alla morte.

 

Le risulta che i tentativi mafiosi di far rivedere l'ergastolo siano continuati anche dopo le stragi e non solo da parte di Cosa Nostra?

Certo che mi risulta. Dal famoso "papello" di Riina in poi esiste una attenzione fondamentale a questo tema che sembra passo dopo passo avvicinarsi all'obiettivo finale del superamento dell'ergastolo anche per i boss.

 

Quali sarebbero le conseguenze di un'abolizione dell'ergastolo ostativo?

L'esclusione dai benefici ai mafiosi militanti, anche se filtrata da una legge, è prevista per chi nega alla radice ogni dialogo con lo Stato e dunque la possibilità di una risocializzazione. Qui parliamo della possibilità di far uscire dal carcere i mafiosi stragisti o coloro che ne hanno seguito le strategie.

 

I boss hanno anche sperato nell'Europa che non conosce il sistema mafioso?

Possono contare sulla buona fede di tutti coloro che non conoscono la capacità delle organizzazioni mafiose di rigenerarsi in pochissimo tempo con la sola presenza dei loro capi storici. Sono anni che assistiamo a cronache giudiziarie che ci rappresentano l'arresto di capi mafia un po' da tutte le parti, ma si tratta di luogotenenti, sostituti dei sostituti dei veri capi che furono arrestati negli anni 90. Ci vogliono decine di anni perché nasca un nuovo Riina o Santapaola o Bagarella. Tutto quello che è venuto dopo è solo la copia sbiadita dei grandi boss. Quindi il loro rilascio sarebbe molto pericoloso.