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di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 26 settembre 2019

 

I giudici, dopo aver sciolto il nodo del radicale Marco Cappato imputato per la morte di dj Fab, hanno ribadito di non potersi avventurare oltre su un terreno denso di implicazioni etico-sociali, che va regolato con una normativa organica e adeguata. L'incostituzionalità accertata - o anche solo prospettata - un anno fa, è stata dichiarata ufficialmente ieri sera, dopo due giorni di camera di consiglio.

Ma il "giudice delle leggi" ha sciolto il nodo di un singolo processo, quello in cui l'esponente radicale Marco Cappato è imputato per la morte di Dj Fabo, ribadendo però di non potersi avventurare oltre su un terreno denso di implicazioni etico-sociali, che va regolato con una normativa organica e adeguata. Compito esclusivo del Parlamento. Ecco perché la Corte ha definito "indispensabile l'intervento del legislatore". Una messa in mora più incalzante della volta scorsa, quando fu accordato il rinvio del verdetto.

Dopo un anno di attesa, i quindici giudici della Consulta non potevano esimersi dal prendere una decisione che, rispetto all'ordinanza del 2018 con cui avevano già diagnosticato l'incompatibilità di una parte dell'articolo 580 del codice penale con alcuni diritti costituzionali, inserisce qualche limite in più al "suicidio assistito".

Il punto di partenza restano le quattro condizioni necessarie per la "non punibilità", che poi sono quelle del caso concreto arrivato sul tavolo della Corte: l'aiuto fornito a una persona "affetta da patologia irreversibile", alla quale la malattia provoca "sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili", tenuta in vita da sostegni artificiali e però in grado di compiere scelte "libere e consapevoli". Dunque per dirimere la vicenda di Dj Fabo la corte d'assise di Milano ha ora gli strumenti per disapplicare l'antica formulazione della norma che equiparava l'istigazione con l'assistenza al suicidio, e comportarsi di conseguenza.

Per il resto, nella consapevolezza che nel perdurante vuoto legislativo altri giudici sono già stati o saranno chiamati a decidere su casi simili, la Corte ha introdotto ulteriori limiti alla "non punibilità". Richiamandosi alla legge del 2017 sul "fine vita", è stato stabilito che bisogna rispettare "le modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua". Inoltre, tutte le verifiche sulle "condizioni richieste" e sulle "modalità di esecuzione" dovranno essere fatte da una struttura del Servizio sanitario pubblico. E dopo avere raccolto il parere del comitato etico territoriale, come avviene nei Paesi europei che hanno una legislazione in materia.

Non è una corsa a ostacoli, bensì un modo per restringere il più possibile gli spazi d'azione spalancati dalla medicina e dalla tecnologia e lasciati vuoti dall'inerzia del Parlamento. Per evitare invasioni di campo e sconfinamenti in responsabilità altrui, ma anche per scongiurare il rischio di "abusi nei confronti di persone specialmente vulnerabili". Di qui la necessità di ancorarsi il più possibile a una legge già esistente - quella sul "consenso informato", appunto - individuando al suo interno gli strumenti per impedire che la norma riscritta apra la strada a situazioni del tutto diverse da quelle come il caso approdato alla Consulta.

Il divieto al suicidio assistito, infatti, ha un senso soprattutto per salvaguardare "persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane o in solitudine, che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita". Così avevano scritto i giudici nell'ordinanza dell'anno scorso, ed è il motivo per cui la norma non è stata dichiarata incostituzionale nel suo complesso, bensì solo in presenza di quelle precise condizioni ora divenute ancor più stringenti. In particolare per ciò che riguarda accertamenti preventivi e procedure.

Per arrivare al verdetto la Corte ha forse impiegato più tempo di quanto preventivato; non a causa di divisioni interne, ma per cercare di riempire ogni vuoto che rischiava di aprirsi anche volendosi limitare al singolo caso in esame. Facendo ricorso, per quanto possibile, alla legislazione esistente, applicandola per analogia o logica conseguenza. Un metodo che diventa un richiamo in più al Parlamento, che dopo questa doppia pronuncia - l'ordinanza del 2018 e la sentenza di ieri, che sarà motivata nelle prossime settimane - non ha più alibi per non intervenire.