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di Stefano Allievi


La Stampa, 17 settembre 2019

 

Il cambiamento avvenuto al ministero dell'Interno non potrebbe essere più drastico. Non tanto e non solo per il diverso orientamento dei ministri Salvini e Lamorgese - sarebbe banale. Ma per la radicale diversità di metodo e di stile. Si è passati da un ideologo a un tecnico, da un capo partito in perenne campagna elettorale (alle cui esigenze ha distorto la sua carica istituzionale) a un prefetto che nemmeno possiede un account per comunicare sui social, e soprattutto da una persona che aveva interesse a creare problemi e contrapposizioni, perché da essi lucrava il proprio crescente consenso, a una persona abituata a risolverli, i problemi, e sopirle, le contrapposizioni. Per mestiere, prima che per opzione politica.

Ma questo cambiamento dovrà sostanziarsi in politiche: che, per prima cosa, dovranno distinguere la questione dei richiedenti asilo da quella dell'immigrazione, di cui la prima è una parte minore.

Gli "sbarcati" costituiscono infatti solo una percentuale a una cifra del totale degli immigrati, il grosso degli irregolari non è affatto sbarcato (sono overstayers diventati irregolari a causa della legge Bossi-Fini, che vincola il permesso di soggiorno al possesso di un lavoro), e le persone ospitate nei centri di accoglienza non hanno mai superato le trecentomila, e sono in calo. Per questo è bene non lasciare il focus dell'attenzione sulle Ong: questione di bandiera, non di sostanza. Sono molti di più gli immigrati arrivati attraverso gli "sbarchi fantasma" o via terra che quelli salvati dalle Ong.

E nella assurda lotteria su ogni singola barca, per decidere quanti ne avrebbe presi ogni singolo paese, gli stessi a cui si concedeva di fare bella figura a poco prezzo, accogliendone dieci o venti, ne restituivano all'Italia - nell'interessato silenzio del ministero - anche cento volte tanto con i charter dei "dublinanti" rimandati nel paese di primo approdo.

Il problema dei salvataggi nel Mediterraneo non si risolve in mare, ma nelle capitali africane e a Bruxelles - è lì che va concentrata l'azione politica e diplomatica. Attraverso accordi con i paesi di partenza dei migranti (responsabilizzandoli - in cambio di migrazione regolare e regolata - nel controllo dell'immigrazione irregolare), e andando verso una Agenzia europea per l'immigrazione, che gestisca l'intera filiera (salvataggi, redistribuzione, rimpatri - rivedendo gli accordi di Dublino).

Sapendo che la prima azione veramente utile per diminuire gli arrivi irregolari è riaprire i canali di arrivo regolare (i primi sono aumentati esponenzialmente quando si sono chiusi i secondi). Per cogenti ragioni demografiche e di mercato del lavoro Europa e Italia avranno bisogno di una quota non modesta di immigrazione: ma questa deve essere organizzata, gestita, selezionata in base alle esigenze, e soprattutto spiegata ai cittadini.

Passando da una politica basata sulla paura (indirizzata verso un facile capro espiatorio) a un approccio fatto di ragionamenti, di interessi reciproci, di informazioni oneste, di dati. Poi, finalmente, occorre investire in integrazione: la vera posta in gioco sta lì. E conviene.