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di Stefania Maurizi

 

La Repubblica, 15 settembre 2019

 

Dopo 4 anni di battaglia legale, il giudice dell'Upper Tribunal di Londra boccia l'appello per ottenere tutta la documentazione del caso. La stampa non ha il diritto di accedere a tutti i documenti del caso Julian Assange. Così ha deciso il giudice inglese Edward Mitchell chiamato a pronunciarsi su un appello all'Upper Tribunal di Londra promosso da Repubblica, dopo che da quattro anni, invano, il nostro giornale cerca di accedere a tutta la documentazione per indagare e ricostruire il caso Assange in modo fattuale.

In una sentenza estremamente tecnica e che il giudice stesso ha ammesso essere "insolitamente lunga", Mitchell ha rigettato le nostre argomentazioni legali e ha affermato che se anche le autorità inglesi del Crown Prosecution Service, che ci negano i documenti fin dal 2015, decidessero di confermare che, effettivamente, hanno comunicato con le autorità americane del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Giustiza sul caso Assange, questo non accrescerebbe la conoscenza del caso da parte dell'opinione pubblica. Una conclusione questa che ha dell'incredibile se si considera che l'intero affaire Julian Assange ruota proprio sul ruolo degli Stati Uniti nel voler mettere le mani sul fondatore di WikiLeaks per estradarlo negli Usa e chiuderlo in prigione a vita, e quindi sapere se le autorità inglesi e americane hanno parlato di questa possibilità fin dall'inizio e ottenere la loro corrispondenza è cruciale.

Julian Assange è in prigione a Londra, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in condizioni fisiche molto precarie, tanto da essere ricoverato da mesi nell'infermeria del carcere e l'inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, ha dichiarato di essere "gravemente preoccupato" per la sua situazione. È in attesa del processo di estradizione negli Usa, dopo che le autorità americane lo hanno incriminato ai sensi dell'Espionage Act per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. La battaglia legale per l'estradizione entrerà nel vivo nel febbraio del 2020 e se il fondatore di WikiLeaks verrà estradato, rischia una pena di 175 anni di prigione: sarebbe la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un giornalista finisce in carcere per il suo lavoro.

Sebbene il caso Assange vada avanti da ben nove anni, nessun media e nessun giornalista, ad eccezione del nostro giornale, ha mai provato ad accedere a tutta la documentazione del caso. Nel 2015, abbiamo presentato una richiesta di accesso agli atti ai sensi del Freedom of Information Act su ben quattro giurisdizioni: l'Australia, il paese in cui è nato; l'Inghilterra dove si trova fin dal 2010 dopo aver pubblicato documenti segreti esplosivi sul governo americano; gli Stati Uniti, dove è incriminato per le pubblicazioni di WikiLeaks; la Svezia, dove è finito al centro di un'inchiesta per stupro aperta il 20 agosto 2010, richiusa il 25 agosto 2010, riaperta il 1° settembre 2010 e richiusa il 19 maggio 2017 e infine riaperta il 13 maggio 2019 e ancora oggi in corso e alla fase preliminare dopo nove anni.

Il nostro tentativo di accedere ai documenti del caso è stato ostacolato ed enormemente ritardato in ogni giurisdizione. Eppure i pochissimi documenti che finora abbiamo ottenuto hanno permesso di rivelare informazioni cruciali. I documenti forniscono la prova indiscutibile che sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service ad aver contribuito a creare il pantano giudiziario e diplomatico che ha tenuto intrappolato Assange a Londra per nove anni in condizioni di detenzione arbitraria, come ha stabilito il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite (Unwgad).

Sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a sconsigliare ai procuratori svedesi l'unica strategia giudiziaria che avrebbe potuto portare a una rapida soluzione dell'inchiesta svedese: interrogare Assange a Londra, invece che cercare di estradarlo a Stoccolma solo per interrogarlo. Sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a non condividere la possibilità di chiudere l'inchiesta per stupro già nel 2013, come i procuratori svedesi avevano valutato di fare. Infine, sono stati loro a scrivere agli svedesi: "non crediate che questo caso sia gestito come un'estradizione come tutte le altre" e ad ammettere di aver distrutto documenti cruciali, sebbene l'inchiesta sia ancora in corso e sia estremamente controversa.

Quando abbiamo cercato di fare luce su questi fatti e di capire perché le autorità inglesi abbiano agito in questo modo e cosa abbia di speciale il caso di Assange, abbiamo incontrato un vero e proprio muro di gomma, tanto che abbiamo dovuto citare in giudizio il Crown Prosecution Service. In primo grado, il Tribunale di Londra ha stabilito che non avevamo diritto ad accedere ai documenti, perché l'esigenza di proteggere la confidenzialità dei procedimenti di estradizione prevale sull'interesse della pubblica opinione di conoscere la verità. Con la sentenza di appello di oggi, il giudice Edward Mitchell conferma che la stampa non ha il diritto di accedervi. E a questo punto non è chiaro chi potrà svolgere un ruolo di controllo nel caso, considerando che viene impedito alla stampa di farlo.

A rappresentarci in Tribunale a Londra sono stati tre avvocati londinesi di alto profilo: Philip Coppel - un'autorità in materia di accesso agli atti ai sensi del Freedom of Information Act in Inghilterra - ed Estelle Dehon dello studio Cornerstone Barristers e Jennifer Robison dello studio Doughty Street Chambers. "La sentenza è deludente per come affronta l'interesse pubblico di chi cerca di accedere ai documenti, in modo particolare per i giornalisti. Stiamo valutando se è possibile appellarla", dichiara Estelle Dehon a Repubblica.