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di Iuri Maria Prado


Il Dubbio, 2 agosto 2019

 

La legge è un "fatto". La giustizia è un "valore". Per questo si scrive che "la legge è uguale per tutti" mentre altrettanto non si potrebbe scrivere a proposito della giustizia: che è una categoria mentale, un valore, appunto, variabile secondo ciò che uno crede. Questa distinzione, tanto banale per chiunque abbia un pizzico di dimestichezza con le regole liberali degli ordinamenti avanzati, è tuttavia sconosciuta o anzi negata da una buona aliquota dei rappresentanti della magistratura corporata, che certamente non è "la" magistratura ma insomma ne rappresenta la parte socialmente più attiva.

E non per altro ma esattamente in forza di quella negazione accade che il magistrato ritenga di dover rimettere in riga la società corrotta: non per la sua idea di giustizia, che è legittima come quella di chiunque, ma per l'idea invece sbagliatissima che lui, il magistrato, quell'idea di giustizia possa e debba realizzare con il suo lavoro.

Che è, o almeno dovrebbe essere, occuparsi di "fatti", non di valori: e cioè occuparsi del fatto umano costituito dall'illecito, cioè dalla violazione della legge, quest'altro fatto umano. La pretesa che i comportamenti degli uomini e la società debbano adeguarsi a questo o quel principio costituzionale ( uguaglianza, libertà, rispetto dei diritti civili, eccetera) in forza del lavoro della magistratura, e cioè per il tramite di indagini e processi, denuncia appunto quella confusione tra legge ( fatto) e giustizia ( valore).

E spiega perché sia accaduto e tuttavia accada in questo nostro Paese che al magistrato punga di violentare la norma che invece dovrebbe applicare o di opporsi ai progetti di legge che non gradisce: sono fatti ripugnanti, per il suo senso di giustizia. E a risolvere ( si fa per dire) questo conflitto viene con solerzia il processo indebito, o il comizio davanti alla telecamera democratica che fa conoscere al popolo lo sdegno del magistrato al quale si impedisce di far giustizia. Appunto.