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di Andreina Baccaro

 

Corriere di Bologna, 20 giugno 2019

 

Stefano Monti si è impiccato alla Dozza, dove era detenuto per l'omicidio del 1999. I pm avevano chiesto l'ergastolo. Ha lasciato delle lettere: "Sono innocente". La sentenza era attesa per mercoledì.

Mancava una settimana alla sentenza che avrebbe deciso del suo destino: carcere a vita o assoluzione. Ma Stefano Monti ha deciso per sé prima che lo facessero i giudici della Corte d'Assise. Si è impiccato nel bagno della sua cella alla Dozza con i lacci delle scarpe. Prima, ha scritto tre lettere indirizzate a moglie e due figli nelle quali continua a proclamarsi innocente.

È successo alle 9.10 di ieri. Alla stessa ora, mercoledì prossimo, il 26 giugno, è in programma l'ultima udienza del processo per l'omicidio Poli, commesso vent'anni fa. Un cold case che era stato riaperto l'anno scorso, quando a giungo Monti era stato arrestato. Mancava una settimana alla sentenza che avrebbe deciso del suo destino: carcere a vita o assoluzione. Ma Stefano Monti ha deciso per sé prima che lo facessero i giudici della Corte d'Assise. Ha atteso che si aprissero le celle della Dozza e che tutti i detenuti uscissero "al passeggio", come si dice in carcere. Poi è andato nel bagno della sua cella e si è impiccato con i lacci delle scarpe.

Erano le 9.10 circa del mattino di ieri. Alla stessa ora, mercoledì prossimo, il 26 giugno, è in programma l'ultima udienza del processo per l'omicidio Poli, commesso vent'anni fa. Stefano Monti, dietro le sbarre da un anno, si era sempre dichiarato innocente. E lo ha scritto anche nelle sue ultime lettere. Nella sua cella, infatti, ieri mattina sono state ritrovate tre lettere indirizzate alla moglie e ai due figli.

Ultime parole di saluto scritte di suo pugno alla famiglia che non lo ha mai abbandonato e alla quale ancora una volta, l'ultima, affida il suo messaggio: "Sono innocente". I manoscritti sono stati sequestrati dai carabinieri del reparto operativo, intervenuti in carcere insieme alla sezione investigazioni scientifiche per i rilievi. Perché Stefano Monti non era un detenuto comune e una morte a una settimana dalla sentenza lascia aperti tanti interrogativi. Non ci sono dubbi sul fatto che si sia trattato di un suicidio, ma il pm di turno Bruno Fedeli ha comunque disposto l'autopsia sul corpo e tutti gli accertamenti necessari.

Cinquantanove anni, "pilastrino" doc, aveva un passato movimentato e una fama da piccolo boss di quartiere che si portava dietro dall'epoca dei fatti. La sua fedina penale però era rimasta pulita. Sul suo conto gli inquirenti avevano nutrito sospetti già durante la prima indagine per l'omicidio Poli, perché nove mesi prima di quel 5 dicembre 1999, Monti e Poli avevano avuto una scazzottata fuori dalla discoteca Tnt, dove la vittima lavorava come buttafuori. Valeriano aveva rotto il naso a Monti, che gli aveva giurato vendetta: "Torno col ferro", gli avrebbe gridato secondo alcune testimonianze. Ma all'epoca su di lui non furono trovate altre prove. Poi, nel 2014, la svolta dopo una soffiata di una fonte confidenziale alla Squadra mobile.

Il pm Roberto Ceroni riapre il caso e sugli scarponcini della vittima la polizia Scientifica isola un dna che, confrontato con quello del figlio di Stefano Monti, all'epoca detenuto, dà esito positivo. A quel punto viene prelevato anche il dna del padre, in un controllo stradale simulato, e la coincidenza non lascia più alcun dubbio. Il passo successivo è una tecnica da Csi mai utilizzata prima che porta la Scientifica, grazie al filmino di un battesimo in cui Poli indossava gli stessi scarponcini e a cui aveva partecipato pochi giorni prima di essere ammazzato, a sostenere che la macchia di sangue con il dna dell'imputato non poteva che risalire alla sera dell'omicidio.

Ma dopo vent'anni, né le testimonianze, né la dinamica del delitto sono riuscite a dimostrare che prima dei quattro colpi sparati a distanza ravvicinata, ci fosse stata una colluttazione. In aula il legale di Monti, Roberto D'Errico, ha contestato punto per punto le tesi dell'accusa con nuove consulenze e puntando il dito sulle piste alternative abortite.

Non era un segreto che la vittima non si tirasse indietro quando c'era da menare le mani e per questo si era fatta parecchi nemici. Un cold case che ha scavato nel passato, tirando fuori un sottobosco di tradimenti, segreti, intimidazioni ai testimoni avvicinati da Monti dopo la riapertura dell'indagine, e anche poliziotti dell'epoca, scoperti a fare il doppio lavoro in discoteca. La sentenza non era affatto scontata: la "prova regina" dello scarponcino è stata contestata dal super-consulente di parte Pasquale Linarello e la bilancia tra i molti indizi di colpevolezza e i ragionevoli dubbi sollevati dalla difesa pendeva da entrambe le parti. E continuerà a farlo.