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di Giacomo Biscontini

 

medium.com, 6 giugno 2019

 

Ci sono stati periodi nella nostra Repubblica in cui giornalisti, politici e giuristi sono stati obbligati a parlarne. Dieci anni fa, ad esempio, quando la Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha iniziato a chiedere con forza ed impegno una profonda revisione del sistema penitenziario italiano, questo perché alcuni detenuti, dopo un lungo percorso giudiziario hanno chiesto la tutela dei loro diritti, violati proprio dalle condizioni inumane di molte delle nostre prigioni.

La popolazione detenuta da diversi decenni è al centro di un enorme problema, quello del sovraffollamento carcerario. Gli indulti dopo gli anni 2000 hanno messo un cerotto a questa ferita che continua a sanguinare, perché, evidentemente, si tratta di un crisi che non va ad interessare la sola capienza degli istituti, che non riguarda solo i numeri.

Il carcere è spesso disegnato dalla politica come un vaso che cela il suo contenuto e che non deve mai essere scoperchiato. Viene aperto quando occorre buttarci dentro qualcuno, si sigilla di nuovo e (ora fa tendenza dire che) si butta via la chiave se alla condanna si accompagna il disprezzo politico e sociale, spesso manifestazioni dell'ignoranza e dell'incapacità di scovare le cause dell'illecito, il perché quella persona è entrata nelle maglie dell'illegalità.

Questo giustizialismo è causa ed effetto di un regime trattamentale che si muove soltanto sul piano della minore o maggiore restrizione detentiva e che non fa nessuna distinzione rispetto agli utenti interessati ai provvedimenti della privazione della libertà. Evocare la giustizia, sempre, dovunque e in ogni modo, può giustificare il mantenimento dello status quo, ma il cambiamento, anche se fa paura, non può essere rinviato.

I dati del quadro penitenziario italiano (rapporto annuale dell'Associazione Antigone: http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/) ci dimostrano che non basta considerare nuovi istituti premiali, non bastano le attività lavorative e i corsi di formazione organizzati dentro le mura, non bastano più agevoli contatti con l'esterno e un aumento dello spazio vitale minimo concesso ai detenuti. Bisogna spingere per l'inserimento di più professionisti del settore educativo che lavorino sulle problematicità delle persone, occorre mettere al centro la relazione tra custodi e custoditi, cercare di conoscere meglio le storie di ogni detenuto per poter attivare un processo di umanizzazione il più possibile individualizzato. La penuria di risorse non può essere la scusa che permette di oscurare i diritti più basilari delle persone che scontano la pena e le difficoltà del personale addetto ai servizi carcerari, che è costretto a rimanere indifferente di fronte alle ingiustizie e a diventare ingranaggio del processo di "normalizzazione" di una situazione fatta di aggressività e violenze.

Considerando che il numero dei reati è in costante calo da anni, la popolazione detenuta aumenta perché aumentano le pene (il legislatore spesso si attiva per sfamare il mostro della percezione pubblica, fatta di stereotipi, fake news e pregiudizi, cavalcando quello che gli esperti chiamano un "populismo penale") e rimane altissimo il tasso di recidiva. Soprattutto su quest'ultimo punto, è difficile non capire che il lavoro educativo sul singolo è fondamentale. Inoltre le persone più difficili da trattare, che sono classificabili come pericolose, cioè che risultano essere un concreto e attuale pericolo per la società, sono in realtà molto poche sui più di 60.000 detenuti (circa il 10% del totale).

Il carcere minorile è un'altra istituzione sulla quale si dibatte molto, considerando che la responsabilità penale in Italia scatta ai 14 anni, spesso si tratta di adolescenti con dei brevi ma difficili vissuti, che sono nati in situazioni di marginalità e di degrado, vittime dell'imperdonabile assenza dello Stato. Almeno per loro l'opinione pubblica da quasi per scontato che sia necessario un intervento rieducativo più preciso e attento, non si spiega però il motivo per il quale non si debba trasferire anche la gestione della rieducazione di molti dei condannati maggiorenni, come tossicodipendenti e spacciatori cosiddetti "giovani adulti" (tra i 18 e i 24 anni), ai servizi sociali ed educativi. La maggior parte di loro, infatti, impersona il fallimento dello Stato, esso si preoccupa di fare la guerra ai poveri e agli immigrati soltanto per le strade, gridando slogan e proclami.

La tutela della dignità dei carcerati dovrebbe riguardare la politica e tutti quanti noi. E non è solo una questione di condizioni disumane, torture e suicidi oppure di mala gestione di un'importante voce di spesa del bilancio economico dello Stato (stiamo parlando di un settore dove lo Stato ogni anno spende quasi tre miliardi).

Se il numero di suicidi dietro le sbarre ha registrato un numero record (67) rispetto agli ultimi dieci anni e se più della metà dei carcerati rischia di tornare a delinquere una volta uscito (il tasso di recidiva in Italia supera il 60%) significa che è inutile continuare a buttare lo sporco sotto il tappeto.

Occorre chiedersi se le riforme del sistema penale e di quello penitenziario stanno funzionando, se il personale che ogni giorno si interfaccia con i detenuti è preparato, se bisogna aumentare le risorse destinate ad una profonda ristrutturazione architettonica delle carceri (non un mero ampliamento dei posti letto). Ma prima di tutto ciò forse è necessario domandarsi se davvero vogliamo caricarci sulle spalle il peso di una rivoluzione culturale, perché per rendere il carcere un luogo più umano ed efficace bisogna andare al cuore della questione, cambiare prospettiva e stravolgere l'immagine che ci siamo fatti della reclusione che da più di due secoli è rimasta quasi la stessa.

Se non se ne vuole fare una questione morale (" è giusto chiudere in gabbia i propri simili per un lungo periodo di tempo per poi farli riuscire e tentarli di reintegrarli in una società che non li vuole?"), che se ne faccia allora una questione di utilità ed efficacia di un sistema cardine di uno Stato democratico. Siamo davvero sicuri che non si possa fare a meno delle carceri?

La domanda può essere anche solo considerata provocatoria, ma dietro ad un eufemistico modo di porre la questione sorgono dubbi, contraddizioni e soluzioni interessanti. Ripensare il carcere fin dalle sue fondamenta significa non lavorare più in emergenza ma adottare un nuovo modo di punire chi ha sbagliato, magari cominciando dal riconsiderare il maggiore ricorso alle misure alternative al carcere (un percorso già iniziato in passato ma che sta vedendo un'inversione di tendenza) oppure stravolgendo la gestione ed i numeri del carcere in favore di un ampliamento del personale educativo specializzato (introducendo il concetto di "diritto del detenuto ad una relazione umana").

Il carcere è un luogo pericoloso, sia per i detenuti che per coloro che lavorano al suo interno. È il luogo del rigido controllo e dell'annullamento di ogni diritto, più che della sicurezza, del riscatto e della redenzione. L'ossessione della punizione e della sorveglianza potrebbe allentarsi per lasciare spazio ad una vera opera rieducativa che mette al centro la vita del detenuto, quella dentro al carcere ma soprattutto quella che dovrà per forza ricominciare fuori da quelle mura. Anche per questo motivo iniziare a coinvolgere la società tutta (e non solo poche e senza dubbio virtuose associazioni di volontariato) in un processo di riavvicinamento dei condannati (non pericolosi e quindi la stragrande maggioranza) alle persone libere. Nessuno di noi, se ci pensiamo sa cosa succede là dentro, nonostante ci ostiniamo a chiedere a gran voce che proprio lì si compia parte del contratto sociale con lo Stato e si completi la fase finale della giustizia (e mai vendetta) sociale.

Affrontare il problema significa perciò farlo tornare di moda nel dibattito politico, riflettere in toto sul sistema penitenziario attuale e ragionare sui numeri, che sono preoccupanti e che ci informano che l'opera di "riabilitazione" e "risocializzazione" del detenuto è spesso assente o così com'è non sta funzionando.

Un po' come sta accadendo oggi sul fronte del contrasto al cambiamento climatico dovuto all'inquinamento dell'uomo, abbiamo bisogno di ripensare a quale ruolo dobbiamo giocare noi comuni cittadini in tematiche di importanza vitale per la comunità in cui viviamo. Per troppo tempo ci siamo disinteressati di queste istituzioni, da decenni il "problema delle carceri" non ha un'alternativa, perché, in fondo, "la prigione è sempre esistita, cosa bisognerebbe fare?".

Si potrebbe dar voce e ascoltare chi sta cercando di rivedere in modo drastico e intelligente il funzionamento degli istituti penitenziari o il sistema punitivo in generale, perché è stato solo nell'Ottocento grazie al divergente pensiero di alcuni illuminati che la pena di morte e la tortura hanno lasciato spazio all'isolamento e alla segregazione, una riforma certamente meno brutale ma che presenta dei grossi limiti e deve essere rivista. Fermarsi a due secoli fa significa considerare il carcere la riforma più umana ed efficace che possiamo desiderare e accettare implicitamente l'incapacità di cambiare la nostra rappresentazione del mondo e della realtà per migliorare la società in cui viviamo, come invece hanno fatto nel corso di questa lunga storia i nostri antenati.