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di Sergio De Santis

Il Mattino, 29 ottobre 2010

Il Premio Napoli fra i suoi Comitati di lettori ne ha due formati da detenuti delle carceri di Poggioreale e Secondigliano, e i vincitori del premio letterario vanno a discutere dei loro lavori con questi lettori particolari. Martedì è toccato ai tre autori di narrativa italiana, accompagnati da altri lettori, che da “fuori” hanno aspettato disciplinatamente il loro turno per consegnare documenti, cellulari, borse e ombrelli. Man mano che, uno dopo l’altro, alle nostre spalle si richiudevano innumerevoli cancelli, ognuno sorvegliato da un agente, un certo disagio, seppur irrazionale, strisciava palese tra i “visitatori”. Finalmente, dopo un ultimo cancello, ecco un cortiletto presidiato da una cappella adibita a luogo dell’incontro.
Spesso le cose sono diverse da come le avevamo immaginate. Me n’ero accorto già arrivando a Napoli e trovandola accettabilmente pulita, più o meno come al solito, a dispetto delle catastrofiche immagini televisive. Nel carcere, poi, si aveva una sensazione di grande professionalità, a cominciare dagli agenti, attentissimi ma cortesi. Quanto ai nostri lettori detenuti, li avevo immaginati più interessati ai benefici della buona condotta che ai libri. Poi sono arrivati scortati dagli agenti, hanno preso posto disciplinatamente e hanno ascoltato con attenzione i saluti del presidente del tribunale di sorveglianza, del direttore del carcere, del presidente del Premio Napoli e di un avvocato dell’associazione “Il carcere possibile”, che insieme al Premio aveva organizzato l’incontro.
Una professoressa, un’insegnante di quelli veri, che amano sul serio il loro lavoro, ha raccontato di come avesse discusso dei libri con “i ragazzi”, così li chiamava e così in effetti sembravano. A parte l’età, giovanissima per molti, l’atteggiamento di tutti era proprio quello di studenti interessati e composti che assistevano a uria lezione.
Solo che, a differenza degli studenti normali, applaudivano convinti e grati a tutti gli interventi.
Poi è venuto il momento delle domande agli scrittori. Mi è parso che tutti e tre, Benedetta Tobagi, Emanuele Trevi ed io, abbiamo risposto nel modo più sincero possibile. Per quanto mi riguarda, però, non credo di essere stato molto brillante, ero distratto da una ridda di pensieri che mi scoppiavano nella testa. Quel detenuto giovanissimo che si rigirava i tre libri tra le mani come preziosi talismani somigliava troppo a uno qualsiasi dei miei studenti liceali. Che ci faceva lì dentro? Qual era la sua storia? E quell’uomo sui quarant’armi dal volto durissimo che invece faceva domande che trasudavano una profonda sensibilità? Mi tornavano in mente le pagine di Dostoevskij, che aveva raccontato di quanta umanità avesse trovato nelle esperienze di detenuto.
L’avvocato dell’associazione “Il carcere possibile” parlava con passione dei problemi dell’affollamento delle carceri italiane evidenziati dal rapporto dell’Associazione Antigone. Lui, il magistrato, il direttore, mostravano di credere tenacemente nel proprio lavoro, convinti, come già nel ‘700 il Beccaria, che la detenzione debba avere un intento non solo espiatorio ma anche, se non soprattutto, riabilitativo. Mi sono reso conto che un carcere è una comunità, come un ospedale, una scuola, come ogni realtà che raccoglie insieme della gente per un motivo specifico. Ogni comunità ha il suo ruolo, un suo fine, regole, diritti, doveri, problemi, difficoltà, e persone, buone o cattive. Soprattutto, una comunità per essere veramente tale deve avere una componente essenziale: l’umanità. Proprio quell’umanità che si è respirata dall’inizio alla fine dell’incontro.
Certo dentro le celle affollate deve essere incredibilmente dura. Può esistere davvero un “carcere possibile”? Per quanto ne so, almeno per lo spazio di quella mattina, sì. Fuori dalla cappella un alberello verdissimo: doveva essere cresciuto tra un cancello e l’altro tra innumerevoli pianti e preghiere e bestemmie. Quando l’ultima porta si è chiusa alle nostre spalle riconsegnandoci al mondo di fuori mi è parso più chiaro che mai che le parole pesano, specialmente quelle scritte sulle pagine dei libri. Non sai mai chi e in quale condizione può leggere quello che hai scritto magari senza pensarci su troppo. Le parole pesano, tanto, e specialmente uno scrittore non dovrebbe dimenticarlo mai.