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di Francesca Marretta

Liberazione, 10 agosto 2010

A 19 anni Arizo Muhibi sogna ancora di sposare il ragazzo di Herat con cui è fuggita da Kabul. Per questa ragione, da un mese e mezzo, è rinchiusa nel carcere femminile della città orientale afghana. Fahima e Rahimi Jusufi, sorelle di 22 e 23 anni, entrambe avvocate, spiegano che lui non la prenderà più in moglie. Non potrebbe neanche se volesse. Per una afghana l’esperienza del carcere è un marchio a vita. Più esplicito l’interprete Razur: uscita dal carcere, una donna afghana è destinata a finire per strada chiedendo l’elemosina o a prostituirsi.
Sono 115 le recluse nel carcere femminile di Herat, dice il Direttore, Generale Sadegi. Un uomo dall’aria austera, che anche quando è seduto nel salotto del suo ufficio per riceverti, pare stare sull’attenti. Sembra tenere davvero alle detenute, quando, incontrando gli stranieri chiede, se qualcuno potesse aiutare, libri, banchi e sedie per far svolgere meglio l’attività didattica alle carcerate. Il penitenziario femminile di Herat, finanziato da Unione Europea e Ministero della Difesa italiano, è stato costruito dal locale Prt (Provincial Reconstruction Team), unità dedicata alla ricostruzione e sviluppo, con una componente civile e una militare (artiglieri da montagna).
Più che carcere la struttura si presenta come una casa di cura o un centro educativo. Certo, si sta chiuse dentro. Ma le celle restano aperte e si passeggia per i corridoi, dove scorazzano 90 bambini in prigione con le madri. I piccoli hanno anche una stanza per le attività ricreative e un’insegnante. Ci sono sale per il ricamo, una sala con i computer, la mensa, lo spazio esterno per giocare a pallavolo e in ogni camera, ben areata e luminosa, c’è pure il televisore. L’unico altro carcere femminile nel paese è quello di Kabul, anch’esso costruito di recente col sostegno della Cooperazione italiana. Ma nel resto dell’Afghanistan, finire in cella per una donna, significa, a parte lo stigma, essere sottoposta a violenze in luoghi sovraffollati e insalubri, che non risparmiano i loro bambini.
Sembra paradossale, ma per alcune delle afghane che vi si trovano recluse questo carcere è meglio della vita tra le mura di casa. Se destinate all’esperienza della detenzione, le donne di Herat, area del paese con il maggior numero di casi di auto-immolazione come forma di suicidio al femminile, sono più fortunate che altrove in questo paese.
Nel carcere di Herat, sembra quasi di non essere in Afghanistan. Nel senso che “fuori” le donne, a nove anni dalla fine del regime talebano, hanno diritti per modo di dire. Visitare le carceri è uno dei modi per convincersene. Anche se la prigione di Herat è una struttura modello, le cause di detenzione, fanno rabbrividire. C’è che è fuggita da un matrimonio infelice, chi da situazioni di violenza domestica o per un omicidio commesso da un uomo della loro famiglia. Le ragazze sotto i diciotto anni incontrate in strutture minorili in Afghanistan, in molti casi sono arrestate perché scappate da matrimoni forzati o per essere state vendute. Cosa che accaduta, a 19 anni, anche a Gulsun, in carcere a Herat. La giovane, dalla carnagione scura e grandi occhi neri, racconta di essere fuggita dalle mani di trafficanti del Baluchistan, cui era stata venduta da suo marito per l’equivalente di quattromila dollari. Dopo la fuga, il marito, a cui Gulsun era stata data in sposa a dodici anni, l’ha fatta ricercare dalla polizia dicendo che aveva abbandonato il tetto famigliare. La più anziana delle detenute che incontriamo a Herat è Leyla Obeid, intorno ai 70 anni. È in carcere perché coinvolta in un omicidio di famiglia, quello del marito, che aveva abusato della giovane Aziza, moglie del loro figlio ventenne, Juneil. Layla si è presa la colpa, ma il ragazzo è finito comunque in carcere in quanto complice. Hanno sotterrato insieme il cadavere del marito, poi ritrovato dalla polizia.
In carcere, a Herat come in altre prigioni afghane, sono poi rinchiuse donne a cui piace farsi un bicchiere. Vendere alcolici è vietato nel paese, ma sottobanco si trovano. “E sono consumati da molti più afghani di quanto tu possa immaginare” racconta la responsabile di una Ong internazionale. Del resto, se l’alcol non fosse accessibile nel paese, non si spiegherebbero gli arresti di chi lo consuma. I vicini di casa di Sabar, a cui piace il vino, hanno fatto la spia. Per i benpensanti della porta accanto Sabar, che ha ventotto anni ed è istruita, era poco di buono. La giovane, che parla inglese, ha studiato ingegneria, ha divorziato ed è rimasta incinta di una bambina di un anno e cinque mesi, ora con lei in carcere a Herat, di nome Nasri. La polizia ha trovato il vino a casa sua ed è stata condannata a 2 anni di prigione. Le mancano 45 giorni all’alba. Nel suo caso vedrà davvero la luce. Se ne andrà a Dubai, dove l’attende il padre di sua figlia.
In Afghanistan si trovano infine recluse per “cattivo carattere” o rimaste incinte per uno stupro. I crimini cosiddetti “morali”, che comprendono il fuggire da abusi di vario tipo, non sono codificati nel codice penale afghano, ma rimandati all’interpretazione della Sharia da parte dei giudici. “Crimine morale” si può tradurre in lingua Dari, come “esclusivamente femminile”.